Ribilanciare per sottrazione – Elisa Longo

Ribilanciare per sottrazione di Elisa Longo (Samuele Editore, 2023, collana Scilla) è una silloge breve e tagliente, frammentaria per necessità, stilisticamente precisa: un proiettile. Mi fa pensare alla violenta vorace sensualità letteraria di Anne Sexton. La crudeltà, il dolore, il masochismo, la croce, sono solo alcune delle tracce di questa potente invettiva rivolta contro un mondo che è dentro. È un sé dislocato, tagliente come uno specchio infranto. È il trasporto delle relazioni ambivalenti con sé e con gli altri, e allo stesso tempo l’incanto per la natura, pur nella coscienza della sua voracità. Siamo di fronte a un verseggiare netto, talvolta sapientemente strozzato, dove si toccano i palmi di mani tagliate da eventi rievocati e profondamente riemersi. La scelta stilistica di alternare corsivi e non, la liricità del verso libero privo di barriere, lasciano emergere un senso di lotta dalla lettura di questo libro, un senso di lotta e libertà, di cammino verso la libertà, soprattutto dalle gabbie interiori.

Giovanna Rosadini scrive in prefazione:

«La struttura tripartita del corpus disegna un percorso incentrato sull’aspetto relazionale dell’esistenza. All’inizio vengono indagati i rapporti interpersonali mettendone in luce la complessità e sostanziale arbitrarietà (“L’alito imbottigliato a morte / abbocca al fiato del primo venuto / (pur di prendere aria”; “Su qualcosa dobbiamo avere controllo / intuirne l’ora esatta della fine”), e puntando a stanarne la natura conflittuale e manipolatoria (“di un passerotto facevi un T-rex”; “gli omissis hanno buona mira”). Successivamente prende forma un dialogo-radiografia con un sé disperso che fatica a trovarsi (“Mi pare d’essere / in una fotografia // altrove la bocca // intrappolata a spicchi / in uno specchietto da borsetta / minuscola e dislocata”; “sono una pianta in serra / sento il fischio del vento / non so il freddo che fa; “Abbiamo tutti un cane immaginario / gli lanciamo il nostro osso di dolore / ancora e ancora / perché ce lo riporti // finché non lo riconosciamo”).

Gli ultimi testi della sezione eponima arrivano infine al cuore della poetica dell’autrice, che si “vede vedersi” nel quadro di una natura (per quanto comune, quasi domestica) che diventa protagonista, con i suoi cicli e le presenze angeliche degli animali che la abitano, quella natura che dispensa la lezione sottintesa all’esistenza: “(sostengo l’appassire/senza sentire la morte/coltivo la speranza del bocciolo/la delicatezza dello stare accanto”), aprendosi ad una dimensione di mistero (“ribilanciare per sottrazione/un umano e l’invisibile”) e soprattutto alla possibilità di rigenerarsi imparando (significativamente da un animale, un gatto) la grammatica di un amore che si declina in modo diverso: “…provo, /le gratto la testa, /come chi s’appresta a una cosa nuova,/ quando smetto si gira/e con il muso mi cerca/la mano, m’insegna ad amare.”»

Ilaria Palomba

 
 
 
 
III
 
I tuoi pensieri ruminati
trasformavano una carezza in uno schiaffo.
Mi smontavi come i Lego
per rimontarmi secondo la tua legge.
 
Di un passerotto facevi un T-Rex
 
 
 
 
 
 
IV
 
Tappe della via crucis
prima di giungere al Calvario
 
la flagellazione della salma con la lingua
e il bruciore del sale dei tuoi silenzi
 
mi sento impotente mentre innalzi la mia croce
e hai lo sguardo di chi stacca la coda a una lucertola
 
 
 
 
 
 
VI
 
Non c’è certezza del carnefice
né della vittima. I tuoi fantasmi
s’addizionano ai miei
e facciamo matematica.
Contare sulle proprie dita
per non moltiplicare le reazioni
è un gioco di bilanciamenti e soluzioni.
In chimica la massima pressione
esplode in una fuga.
 
 
 
 
 
 
Sono tutta occhi e guardo
ma non lì dove fa più male
dove il disuso ha gonfiato i muri
dove ratti e scarafaggi fanno tana.
Affermo di essere pronta
a fare il cambio degli armadi
 
mentre fuori piovono foglie
ed eplodono i colori
io fantastico farfalle

 
 
 
 
 
 
VII
 
Di mio non posseggo
e non so fare molto
se non raccontare
l’indaco dell’ortensia
mentre sboccia, il girasole
dalla testa arresa al vento,
gli occhi chiusi nelle foto
e i passi di chi non ha ancore;
una gatta gironzola in giardino
– nemmeno lei è mia –
poi mi s’affagotta accanto
in cerca di carezze, provo,
le gratto la testa,
come chi s’appresta a una cosa nuova,
quando smetto si gira
e con il muso mi cerca
la mano, m’insegna ad amare.