Il sesto libro dell’Iliade è noto soprattutto per la struggente scena di addio fra Ettore e Andromaca sulle mura di Troia, preannuncio della morte dell’eroe e della conseguente caduta della città, di cui il figlio di Priamo rappresentava il principale baluardo. Ma non si tratta dell’unica avvisaglia della catastrofe presente in quel libro. Prima di raggiungere la moglie, Ettore chiede infatti a sua madre Ecuba di recarsi nel tempio di Atena e di offrire alla dea una veste pregiata – Atena è anche la divinità tutelare della tessitura –, promettendole in sacrificio dodici giovenche se terrà lontani gli Achei dalle porte della città. Un compito che Ecuba esegue minuziosamente, ma che non dà l’esito sperato: di fronte alle preghiere della regina, infatti, Atena scuote la testa, nel gesto tipico di chi oppone un rifiuto.
Il fatto è che Atena è la divinità tutelare di Troia: il suo diniego significa dunque che la sua protezione sulla città è ormai venuta meno e che la dea è passata dalla parte dei suoi nemici. Non a caso, un’antica profezia diceva che Troia avrebbe retto all’assedio solo finché una statuetta di Atena, il Palladio, fosse rimasta nella cittadella: statuetta che Odisseo provvide a sottrarre, con l’aiuto di Diomede, e che secondo una delle versioni del mito finì per giungere a Roma, trasportata da Enea in persona. Qui il simulacro fu incluso tra i cosiddetti pignora imperii, sorta di talismani alla cui conservazione era legata la stessa sopravvivenza di Roma.
Anche i Romani, infatti, sapevano che le città dei loro nemici avevano divinità protettrici e per neutralizzarle ricorrevano a un rito molto interessante, la evocatio: il dio o la dea in questione venivano “chiamati fuori”, secondo il significato etimologico del termine, e invitati ad abbandonare al proprio destino la città che avevano sin lì abitato e a seguire i vincitori a Roma, dove sarebbe stato eretto in loro onore un tempio e prestato un culto ben più sontuoso di quello che ricevevano in patria. Della formula che i generali romani pronunciavano in quelle circostanze, anzi, ci è giunto persino il testo, almeno nella versione che venne utilizzata prima di dare corso alla conquista e al saccheggio di Cartagine, alla metà del II secolo a.C.; e sappiamo che quando, molto tempo prima, la stessa cerimonia era stata eseguita nei confronti di Giunone, protettrice dell’etrusca Veio, alla formula di rito si era aggiunta anche una precisa domanda rivolta alla statua della dea, cui era stato chiesto se fosse disposta a venire a Roma: domanda alla quale, i presenti erano pronti a giurare, l’immagine aveva annuito chinando il capo, con un gesto che rovesciava quello a suo tempo compiuto da Atena a Troia.
La evocatio rimanda a un orizzonte culturale, quello delle religioni politeiste, nel quale gli dèi del nemico non sono idoli da abbattere, ma divinità che vanno rispettate al pari delle proprie e che in quanto tali possono essere accolte a pieno titolo nel pantheon del vincitore. Ma non sarà così per sempre.
Il culto del dio Serapide, di origine egizia, aveva conosciuto nel mondo antico una grande diffusione, in ambito sia greco che romano. Il suo tempio principale, il Serapeo, sorgeva ad Alessandria e proprio per questo divenne una delle trincee sulle quali si combatté, al tramonto del mondo antico, la battaglia decisiva tra il cristianesimo trionfante e la religione tradizionale ormai avviata al declino. Battaglia in senso proprio: sullo scorcio del IV secolo d.C., un pugno di “pagani” si asserragliò nel venerando edificio sotto la guida del filosofo Olimpo per impedire che i cristiani, aizzati dal loro vescovo Teofilo, abbattessero il tempio, gioiello di architettura sacra e insieme simbolo di un’intera tradizione culturale. Ma la notte prima dello scontro finale, mentre nella grande struttura regnava il silenzio, Olimpo avvertì distintamente una voce nel buio che cantava “Alleluia”: tanto gli bastò per capire che la battaglia era persa e che Serapide si accingeva a cedere il campo al nuovo dio cristiano. Come all’epoca della Giunone di Veio, un millennio prima, gli dèi sconfitti abbandonavano i loro templi, ma non per farsi adottare dai vincitori, bensì per essere soppiantati dal loro unico dio. Il giorno dopo, tra le urla di gioia dei cristiani, il Serapeo fu raso al suolo e i suoi preziosi arredi fatti a pezzi, mentre il politeismo passava per sempre la mano alla nuova era monoteista.