quel niente che non chiede, e che consola – François Nédel Atèrre

quel niente che non chiede, e che consola - François Nédel Atèrre

 
 
Fiorisce anche l’ortica. Non le vedi
le foglie nuove, al ciglio della strada,
se non cammini guardando per terra.
 
 
 
 
 
 
Verdeggia un’edera spontanea, al muro
tra le finestre dell’ultimo piano:
arriva sempre a trovare il suo posto
quel niente che non chiede, e che consola.
 
 
 
 
 
 
Sforzati di cercarlo, il bene. È l’ora.
Non soffermarti al muschio che colora,
con lame verdi, la corteccia ai tronchi.
Più in alto, dove i rami sono lievi,
l’ombra si arrende alla luce: in ghirlande
foglie minuscole onorano il vento,
cantano lodi al cielo, misteriose.
 
(François Nédel Atèrre, Mistica del quotidiano, Terra d’ulivi, 2018)
 
 

Tre testi brevi ma significativi, questi di François Nédel Atèrre, in cui è descritta una visione del mondo in cui i dettagli naturali e spontanei della realtà di ogni giorno si trasformano nell’occasione di trovare un senso profondo al nostro esserci, allo stare al mondo: operazione che l’autore svolge con sacralità dimessa, celebrativa ma modesta, come a ridimensionare la propria natura umana avvicinandola al dettato delle nascoste cose.

“Fiorisce anche l’ortica”, inizia il primo, proprio a dimostrare che ogni cosa del mondo ha il suo fiorire, anche la più imprevedibile e inaspettata, e che tale fenomeno richiede attenzione, pazienza, cura: perché accade spesso che tali “foglie nuove” restino relegate, ai margini (“al ciglio della strada”) e l’unico modo per scoprirne la bellezza del rifiorire è camminare “guardando per terra” – non verso il cielo, dunque: come a dire che il sacro è più vicino a ciò che è sotto i nostri piedi che a ciò che è sopra la nostra testa.

Nel secondo testo la protagonista è “un’edera spontanea”, che sale fino alle “finestre dell’ultimo piano”: anche qui, le “piccole cose” sacre della natura, apparentemente insignificanti (“quel niente”, le chiama Atèrre) si incarnano in dettagli che sembrano di poco conto, invisibili ai più, ma che operano una resistenza di significato da parte del mondo, instillando senso in chi riesce a comprenderne il mistero semplice – ma non per questo facile, né banale. Tale operazione è fonte di conforto e di serenità, perché nulla chiede in cambio, se non quella minima attenzione, riuscendo invece a “consolare”.

Nell’ultimo testo questi dettagli naturali si trasfigurano e intrecciano alla dimensione umana in modo più netto: se nei primi due, in ogni caso, è ben possibile già svolgere tale operazione (in “Fiorisce anche l’ortica” possiamo vedere un inno all’attenzione verso le persone umili, alla bellezza nascosta negli uomini semplici e modesti, ma anche la possibilità che ogni essere umano, anche il più “urticante”, ha di regalare la generosità di una fioritura; in “Verdeggia un’edera spontanea” si può leggere un canto all’inaspettato conforto che arriva dagli affetti più imprevedibili, naturali ed autentici, che crescono dal nulla proprio come la pianta, senza nulla pretendere), in questi versi, in particolare, l’incipit diretto e imperativo in seconda persona (“Sforzati di cercarlo, il bene”) impone immediatamente al lettore delle coordinate relative all’umano e al suo stare al mondo e in relazione, affermate con decisione.

Il testo prosegue con un invito a non indugiare sulla superficie apparente delle cose (“non soffermarti al muschio”) ma, anche qui, a scoprire i dettagli meno evidenti delle trame naturali (“più in alto … foglie minuscole onorano il vento”): questo luogo privato, quasi intimo, appare quasi come un inner sanctum racchiuso “in ghirlande”, da cui gli elementi più umili del mondo “cantano lodi al cielo, misteriose”. Appare evidente come “il bene” che bisogna sforzarsi di cercare passi attraverso una visione sacralizzata del mondo, della natura, e delle cose più umili e nascoste. Anche il tono di Nédel Atèrre, il dettato, le immagini, ogni singolo elemento presenta la sapienza di un’impostazione sobria ma curata, umile ma riverente, semplice ma ricca di sfumature, risultando nell’equilibrio pacifico di in un canto che si inserisce con rispetto devoto e silenzioso nelle trame della natura e delle cose, accompagnandovi anche il lettore.
Non canimus surdis, respondent omnia silvae”, scriveva magistralmente Virgilio: “Non cantiamo ai sordi: le foreste riecheggiano ogni cosa”, per chi silenziosamente si pone ad ascoltare quel canto così minimo e tremendo.

Mario Famularo