Sono nata e non ricordo,
il sangue le voci, non c’erano animali
o fuochi nella terra delle ragioni,
solo una bocca incapace di amore.
A settembre la città odorava di polvere e acqua,
la strada era un nido di passi
gazzelle e grembiuli neri
a coprire la bellezza dallo sporco.
Sui ponti l’inizio ricorda la fine,
il verso comincia dove giunge,
nel mezzo la luce cade e
si rintana nel grembo della madre.
Non ha cresciuto figli,
li ha lasciati al buio della strada
alle fiamme del camino, il più feroce dei focolari.
Quegli orfani amano come Dio,
non ricordano, hanno pietà,
scrivono sulla polvere la lingua della città.
Sotto la luce rossa dei lampioni
con le nostre facce aliene
pesare le possibilità.
Comprare un biglietto su un sito fantasma,
perdere quel poco e l’impossibile,
troppo dolore in una volta.
Eppure cosa resta se non la curva che sale
senza conoscere l’acme della caduta,
trattenere un fotogramma del sogno
prima che il letto gli occhiali la finestra il gas
la vita comune, il tutto dalla terra
venga.
(Mara Venuto, La lingua della città, Delta 3 Edizioni, 2021)
Questi testi di Mara Venuto, come fossero brandelli strappati dalle fauci di una realtà che non lascia tregua, si potrebbero dire esiti di una impossibilità di connessione della poesia al presene; e strutturano una profonda volontà di redenzione, muovendo da un’esigenza di completezza, ed esondando nella speranza di poter coniugare l’intimismo più struggente con l’esteriorità del quotidiano.
La percezione che si trattiene da questi componimenti prevede un elemento di mancanza, un’assenza che parrebbe porsi come un elemento del dettato strenuamente indagato – almeno tanto quanto ciò che possa colmarla – e fruttifica nella conseguenza di un’orfanezza, un senso di solitudine berciante alla quale fa di controcanto un controllo stilistico e formale della parola in quanto modalità di ritorno-nel-sé.
Per questo, il verso della nostra si pongono come risultato mediato, quasi fosse frutto di una profonda meditazione e di una ponderazione estrema in favore di un equilibrio sistematico, quasi come fosse l’unica regola da cui la vita non può prescindere.
La dialettica profondamente intimistica dell’io lirico, infatti, non può distaccarsi dalla rielaborazione della realtà, sia questa come superficie granitica di una campitura urbana sostanzialmente sterile nel suo esistere, sia questa come rapporto con l’altro, col fuori, con il resto, con ciò che si può ancora trattenere.
Se in queste liriche vi fosse una sorta di speranza, sarebbe certamente nella struttura mobile del vero, in una sorta di non meglio definito passaggio di stato da cui origina tutta l’imparità. Ma nell’inventario di quanto rimane, di quanto sopravvive alla memoria nella forma di ricordo, il verso sembra tanto commemorare da un lato, quanto induce utilmente a soppesare la compagine delle possibilità come conseguenze che originano da una qualsiasi scelta che sa offrire l’uomo all’altare del quotidiano.
Il tanto squadra poi come elemento di una certa universalizzazione, un oracolo sostanzialmente definitivo nei meriti dell’incerta natura dell’umanità, e dell’insufficienza delle tracce che ci lasciamo alle spalle, e che non può che sfociare nella disperata necessità di trattenere qualcosa dal sogno che tutto anima.
Lo sforzo che innerva il dettato, tuttavia, si conferisce come un fotogramma estrapolato da una narrazione irrecuperabile, un istante la cui sfuggente insensatezza travaglia il lettore, e l’autrice parimenti.
Questo che conferma una poesia, in ultima istanza, vergata da un canto che – seppur consolatorio nella misura del consolabile – di poco sa riparare la disillusione della grandezza ormai completamente perduta, e si impernia in una precarietà che si indova nella perdita.
Carlo Ragliani