Chiunque dovrebbe cimentarsi nella lettura di Quarantadue (Pordenonelegge-Samuele Editore, 2024) della poetessa bolognese Beatrice Zerbini. Leggere questi versi è sentirsi abbracciati nel proprio lutto, è riuscire ad abitare certi luoghi che fino a quel momento apparivano come spaventosi buchi neri. La morte si prende tutto, colpendo soprattutto coloro che restano vivi, prendendosi la loro voce e il corpo. Scrive l’autrice: “[…] quando non mi parli, quando / non rispondi, non so nemmeno / cercarmi, mi sembra / di non avere più un corpo”. Il nostro essere viene definito da una presenza, che può essere quella di un genitore o di una qualsiasi persona cara. Il corpo, insieme alla mente, cambia e viene plasmata da coloro che ci sono attorno e che influenzano la nostra vita in maniera radicale. Quando qualcuno di questi scompare, allora ci sentiamo come disabitati. Le persone che abbiamo amato di più ci hanno lasciato qualcosa in eredità dentro di noi, e quando se ne vanno è come se lasciassero andare un bambino che ha appena imparato a camminare. Questo “non avere più un corpo” può apparire al lettore come un bambino piccolo che sta scoprendosi, e che senza una guida attenta non sa dove cercare (né dove cercarsi).
Non sono solamente gli esseri umani a percepire questa assenza. Nella poesia della Zerbini è come se prendessero vita anche gli oggetti, animandosi di una profonda angoscia e smarrimento. Scrive di un compleanno, il “compleanno dei morti”, che può apparire come un ossimoro potentissimo perché nel contesto che dovrebbe essere festoso gli elementi inanimati si trasformano diventando i simboli tragici dell’assenza. “I pasticcini sono moniti e puntelli” scrive la poetessa, facendoci immaginare un vero e proprio banchetto dell’agonia mascherata. “Al posto / degli applausi, stare zitti; / […] al posto degli auguri, / una poesia non letta”.
Quando si attraversa un lutto, magari l’ennesimo, ci sono due modi per affrontare tale situazione. Il primo consiste nel venire colpiti dal dolore, ogni volta, come fosse la prima, nel secondo caso si innesta un meccanismo di abitudine al dolore. Quest’ultimo è come un ricordo che ogni volta rimane ben saldo, ed è il fenomeno di cui parla l’autrice: “Ecco il dolore, lo accolgo / con confidenza familiare / sono così / felice / che sia dolore ancora così uguale / a sempre, anche se / nuovo”. Cambia sempre qualcosa, nessuna morte può dirsi uguale all’altra. La domanda che scatta automaticamente è: potrà mai essere possibile abituarsi completamente al dolore, senza più soffrirne?
Un elemento fondamentale nel percorso di ripresa da un lutto è quello del ricordo: ovvero, come affrontarlo? Un profumo particolare riemerso dopo tempo, un oggetto, una fotografia, anche solo la visita di un luogo, come può farci sentire? “Ero qui che stavo / lasciandomi morire in pace
Insieme al ricordo, punge aggressiva come non mai l’assenza. Se la morte riguarda qualcuno che vedevamo quotidianamente, il vuoto che lascia è ancora più insopportabile. Il tentativo drammatico è quello di cercarlo, chissà dove e, soprattutto, chissà come. Il metodo della poetessa è tenero e angosciante al tempo stesso, come un urlo nel deserto. “Mi mandi / la posizione, / in tempo reale, / col navigatore; non posso / raggiungerti; […]”. È questo il grande dramma che si porta appresso la morte, questo non rivelarci dove sia l’altro, dove la sua anima sia stata destinata, da dove riesce nonostante tutto a parlarci. Allora non bastano navigatore e medium.
Le distanze fisiche prendono spazio nella raccolta di Beatrice Zerbini, diventano luoghi talvolta vivi e altre volte pregni di oscura assenza. Nella parte iniziale del testo leggiamo “Il giorno dopo, / un’ombra ha invaso la stanza” facendoci immaginare un luogo spoglio, a sé rispetto all’ambiente esterno in cui “una farfalla rossa / e nera è scesa un istante giù / da me; era un segnale”. In questo caso il mondo fuori entra in contatto con l’interno, dando un messaggio che è quasi avvertimento. Può capitare di avvertire segnali dall’ambiente a noi circostante che, letti successivamente, ci fanno dire: era un messaggio. Nella poesia indicata precedentemente, invece, l’ambientazione è sempre una stanza (si può intuire dall’accenno ad una finestra), ma fuori c’è la vita: “[…] e di fuori / da questa finestra, ci sono / soltanto palazzi, / la gente che passa nei portici”. Nel contesto attorno a questi versi, e a quelli successivi, possiamo vedere qualcuno che da una finestra spia l’esterno per cercare di scorgere il volto di qualcuno, forse proprio del defunto, cercarne i lineamenti, il viso che si alterna tra le colonne dei portici bolognesi. La città emiliana ha sempre fatto e credo farà per sempre parte della poetessa Zerbini.
L’amore, all’interno di questa raccolta, non ha il ruolo di salvatore che ci si potrebbe aspettare. Lo troviamo, verso dopo verso, ragione di dolore, angoscia, dubbio. Ad esempio, leggiamo del “[…] terrore / di non essere riamata, / essendo amata, di non essere / amata più,
Caterina Golia
Di quali morti moriremo? Sarà
prima la testa
a non ricordare cosa,
o il cuore
a non amare chi?
Quale morte non sapremo
e quale data, l’ora?
Avrò
l’occasione di un letto, di
casa mia, il dono
di te che mi
sopravvivi o sarà per strada?
Morirò anch’io, come tutti,
proprio io, che vivo?
Se non è vero il tuo amore
non è più vero niente,
non è vero che suonano
le sveglie per svegliarmi,
non è mattino da andare
a lavorare e vivere,
non è vero, non ne ho voglia,
non sono vere le gambe,
alzarsi non è vero;
è vero appena dormire
e non dormo;
non sono veri
gli occhi,
non vera la gola,
non vero che non urlo –
per miracolo,
per ridicolo -;
se non è vero il tuo amore,
niente è vero e non sono vera.
Le tua voce ha le mani,
quando mi togli la dolcezza e restano
nudi gli spigoli e la tua freddezza
sono lividi.
E quando non mi parli, quando
non rispondi, non so nemmeno
cercarmi, mi sembra
di non avere più un corpo.