foto di Dino Ignani
ho visto la morte diverse volte
e quasi mai era violenta, eccetto forse
nel caso di piccoli ricci, o tassi, oppure
rospi di media e grossa taglia. allora
mi chiedo, cuore mio, perché ancora
ti spauri dinanzi alla fine naturale
delle cose, perché non ti rassegni
a chiudere gli occhi insieme
alle persone care, perché mai
ti tradisci gonfiando d’aria
l’impressione di non aver più,
non aver mai, non aver sempre?
ricominciare da capo, riavvolgere
il nastro della serie evolutiva, riflettere
sul come e sul perché perdemmo
la coda sviluppando il germe ambiguo
della ragione. se c’è stato un passaggio,
un frame d’indiscusso valore,
fu certo l’assunzione della mela
a simbolo d’onnipotenza.
staccandola dal ramo da cui scendemmo
s’inverò d’un tratto il destino di proserpina:
l’abito del lutto e l’assenza di luce.
quante cose ancora nella vita
ma poi c’è sempre lei, la morte,
la morte, la morte che regola
tutta la specie umana, le piante
e gli animali. stasera, mio dolce
amore, copriamo con un panno finissimo
gli specchi, togliamo le pile
agli orologi, non senti?, fa freddo
e che pace, ora, nei tuoi occhi.
(Marco Corsi, La materia dei giorni, Manni Editore, 2021)
“La morte è grande. / Noi siamo i suoi figli e sulle labbra / abbiamo un sorriso”, scriveva Rilke ne “Il libro delle immagini”, evidenziando quanto la coscienza della fine ci caratterizzi e ci consenta di cogliere il valore dell’attimo nonostante la sua provvisorietà, la sua tensione naturale allo svanire.
Questa naturalezza della morte viene affrontata con attenzione in questi testi di Marco Corsi, collocata in una dimensione quotidiana, “quasi mai … violenta” (nonostante vi siano delle eccezioni, come il testo evidenzia causticamente subito dopo), ed ecco che immediatamente la percezione del finire viene ricondotta all’io del testo, al cui cuore egli chiede: “perché ancora / ti spauri dinanzi alla fine naturale / delle cose, perché non ti rassegni / a chiudere gli occhi insieme / alle persone care …?” L’istinto naturale a voler “possedere” ciò che abbiamo di più caro, siano anche le relazioni, il tempo, i ricordi, ci immerge nel paradosso del divenire, dell’impermanenza, della dispersione, traditi da “l’impressione di non aver più, / non aver mai, non aver sempre” – ed è soprattutto quel sempre l’inganno più grande di cui crediamo di aver bisogno per vivere serenamente il nostro tempo – che è e resta limitato.
Avvertire tale condizione come una minaccia, come un agente esistenziale in opposizione a quello dell’esserci, impedisce di comprendere il lato più naturale della fine, che la natura circostante sembra accogliere serenamente, a dispetto della nostra specie, che ha sviluppato “il germe ambiguo / della ragione”, circostanza che ne ha alterato per sempre la visione del mondo; “l’assunzione della mela / a simbolo d’onnipotenza” (anche qui un tocco di ironia ridimensiona le aspirazioni umane, come si conviene), “frame d’indiscusso valore” nella storia dell’uomo, viene assurto a passaggio simbolico dall’incoscienza della carne alla coscienza della sua precarietà, a consapevolezza del suo predestino di dissolvenza: è “il destino di proserpina”, divisa tra rinascita e oltretomba, “l’abito del lutto e l’assenza di luce”.
E dunque, “quante cose ancora nella vita / ma poi c’è sempre lei, la morte … che regola / tutta la specie umana, le piante / e gli animali”; ma accettare la natura provvisoria dell’esistere significa in primo luogo valorizzare l’attimo, proprio perché fragile, scevri dall’illusione che esso si possa ripetere in una sequela senza fine, consapevoli della limitatezza del nostro tempo, e ancor più dei momenti felici, di pace: l’invito finale del terzo testo sembra chiedere esclusivamente di vivere il momento, senza riflessioni, senza pensieri, senza nemmeno la percezione del tempo che corre, per concentrarsi solo sull’essere insieme, vivi, adesso: “mio dolce amore, copriamo … gli specchi, togliamo le pile / agli orologi, non senti? … che pace, ora, nei tuoi occhi.”
E nell’avvertire questa pace di incoscienza così terrestre nell’altro da sé, vi è una delle poche speranze di riuscire a raggiungerla come esperienza personale, in opposizione a quell’orrore del cuore “dinanzi alla fine delle cose”.
Mario Famularo