Q. e l’allodola – Vincenzo Mascolo

Q. e l’allodola, Vincenzo Mascolo (Mursia 2018).

Da qualche tempo il dibattito che alcuni di noi cercano di portare avanti in varie sedi riguarda l’uso e la consapevolezza del linguaggio in poesia, senza ovviamente perdere di vista il contenuto (il quale, secondo la prassi che sembra si osservi in tante pubblicazioni medio-alte, sembra prescindere senza troppi convenevoli da tecnica e linguaggio). Si tratta di una discussione scaturita forse dalla presa di coscienza dello stato di sostanziale stagnazione della poesia, che sembra più tesa a soddisfare i bisogni egotici di chi la scrive o la ricerca di facile approvazione da parte di un pubblico che certo legge la poesia, ma (con grave scorno per l’editoria) non la compra.

La posizione di Vincenzo Mascolo, in quanto organizzatore del festival letterario romano Ritratti di Poesia, è dunque quella di un osservatorio privilegiato per notare quanto detto, come pure il suo contrario (non si intenda quanto scritto fino ad ora come una sorta di pomposo O tempora o mores!). Q e l’allodola si presenta come una lunga e stratificata riflessione sulla poesia, sul fare poesia, ricca di nomi, citazioni e atteggiamenti appunto metapoetici a cominciare da quell’allusione (suggerita anche dall’uso, ad un certo punto, delle terzine dantesche) alla Commedia, sottolineata da Guido Oldani nel retro di copertina del libro: “[…] Qui, l’autore attraversa una foresta oscura o un limbo, che sono costruiti dalle congetture della metrica, delle strofe, dell’avvalersi di terzine e nominando persino i versi alessandrini. […]”. Il libro, diviso in sei parti di diversa durata, sembra assumere come riferimento il poema di stampo medievale / umanistico, didascalico, speculativo e lirico al tempo stesso. “Cantami, o diva, l’eterna lotta / tra i significati e i significanti / […] l’ira del poeta / la sua fatica che trasuda versi: / portami il sangue della sua poesia.”. Questo è il parodistico proemio-auspicio che apre il libro, subito seguito dall’entrata in scena del Virgilio designato per il viaggio di Mascolo, e cioè Queneau, uno dei più onnivori e originali autori del XX secolo. Queneau che, anche per le sue riflessioni metapoetiche, è l’ideale interlocutore di Mascolo, che a lui si rivolge con fare tra il liturgico, l’amicale e l’ossequiente

 
 
Oh, Queneau
non basta più esercitarsi nello stile
come tu sapevi fare inanellando
notations, hellenismes, le contre-pettéries
e tutte le altre tue diavolerie
che aprivi come nuove fioriture
nelle terre inaridite che solcavo
con strumenti quasi umani zolla a zolla.
 
 
 
 
Oh, Queneau
i poeti sopravvivono a fatica
costretti a rovistare tra le scorte
delle loro animule sfibrate
per riprendere il ritmo regolare
del battito del cuore e del respiro.
Non c’è più tempo per i tuoi esercizi
non è più tempo questo per lo stile:
ormai del poco fiato che rimane
è meglio farne voce per la bile.
 
 

La bile e i vocaboli che riconducono alla semina e alla fioritura ricorrono varie volte lungo il libro come si trattasse di elementi contrari e complementari, o forse come antidoto uno dell’altro: in ogni caso metafore, secondo il gusto medievale. Altre urgenti e a tratti ironiche riflessioni, che vi invito a scoprire leggendo il libro, percorrono queste “invocazioni”, seguite poi dalla quinta sezione del libro, a metà strada tra il dialogo-monologo e la speculazione filosofica (un pezzo di teatro?). Sul versante dell’impaginazione anche qui la posa è totale ricalcando le stanze di quartine di alessandrini di cui sopra (pur non essendo tali), senhal di tanta letteratura francese. L’impressione finale è quella del compendio di un dibattito.

Alcuni assaggi a guisa di frammento eracliteo

 
 

[…] perché la sua materia è la parola e a tutto l’indicibile, al non detto, a tutto l’invisibile in cui credo può dare forma solo la parola, in lei si manifesta la poesia […]

 
 

[…] il linguaggio si avvale del pensiero razionale, ma mi auguro si possa convenire che c’è un’origine, una fonte e la sorgente è un nucleo preverbale permeato dalla trama del mistero che lega insieme tutto l’esistente e partecipa alla formazione del linguaggio, […]

 
 

[…] oh Queneau, non oserò turbare l’universo, io scrivo solo per riunire la gioia dello spirito alla carne e per godere di quella pienezza coltivo in solitudine la terra con l’acqua scaturita dalla fonte, poi siedo nel giardino recintato e aspetto che si annunci il tempo della nuova mietitura, […]

 
 

[…] i poeti, per natura incapaci di resistere al vizio capitale della parola vana e per questo condannati a perdersi in eterno, […]

 
 

[…] sono qui e in dialogo con te che non rispondi esploro l’estensione del linguaggio, la sua capacità di assumere la forma del pensiero, […]

 
 

[…] salvami dalle sinestesie, dalle contaminazioni vicendevoli, dall’emozione pura, dal flusso di coscienza, dai testimoni del proprio tempo, […]

 
 

Stacco musicale: compare dopo questa sezione una partitura musicale, On the nature of daylight di Max Richter, compositore che potremmo definire neo-minimale / ambient, molto in voga in questi ultimi anni. Il brano per ensemble d’archi, coi suoi suoni dilatati a sostegno di una semplice melodia che procede per grado congiunto o per quinte (solo nelle ultimissime battute si  allarga in rare seste), coi suoi piani sonori confinati accuratamente in mantici che vanno dal piano e al pianissimo, sfiorando solo una volta il forte, sembra quasi sgombrare il palco dalle lunghe e dense elucubrazioni fino a qui condotte da Mascolo, restituendo una scena vuota, pronta per la nuova sezione del libro. Curiosamente (o volutamente?) un brano che, nella sua eleganza di bell’oggetto d’arredamento dal titolo vagamente evocativo, ben si presenta come “testimone del proprio tempo”.

 

Veniamo all’ultima sezione:

 
 
Al centro della mia vita binaria
(ho ancora molte cose da dire,
fare, leggere e ascoltare
che credo sarà quasi centenaria)
mi ritrovai nella palude oscura
della poesia di questo divenire.
 
 

Da qui in avanti il viaggio procede per terzine dantesche (ragguardevole prova di maestria), attraverso una selva di ragionamenti, citazioni medievali e provenzali, slanci lirici e visioni ottocentesche che ricreano un personale viaggio da Commedia. Una scelta, quella di usare diffusamente la terzina, interessante e controcorrente ma non così inusuale, segno di un rinnovato e mai sopito interesse per le forme chiuse nella poesia contemporanea (come possono provare la recente traduzione de La valle delle farfalle di Inger Christensen[1] o il recente canzoniere di Piumini[2], per non citare i classici della Valduga). Si potrebbe dire sia la logica risposta allo smarrimento e al cortocircuito tra forma e contenuto sviscerato nelle sezioni precedenti; un “[…] pasto luculliano / per loro che confondono nei versi / poesia e tocco della mano […]”, un ordine autoimposto che forzi, ma anche accolga, il percorso di “salvazione” di Mascolo dalla sterile condizione del presente alla pur provvisoria verità poetica. Anche qui i riferimenti musicali (Bach, Orff e Bellini) compaiono come amplificatori di contenuto.

 
 
Non è rimasta immune la poesia
che ora sento spenta, prosciugata
del suo soffio vitale, di energia
 
e sembra spesso quasi soffocata
perché si sente stringere la gola
da grumi di realtà già masticata.
 
Dov’è silenzio, dove la parola
che riproduce il suono della vita
qual è la corda giusta della viola.
 
 
 
 
Levatevi dal sonno, dalle tombe
o miei Penati, numi tutelari
i vostri versi siano come bombe
 
sui miei pensieri già crepuscolari
sulla penombra che dalla mia mente
avvolge cieli, campi, vie biliari.
 
Io odio questo vuoto questo niente
che si diffonde come la gramigna
e scava dentro me profondamente
 
 
 
 
E tu cantami ora, casta diva,
la trama della vita che s’impiglia
nei tuoi riflessi, fai che sopravviva
 
in me la quotidiana meraviglia
rosa d’inverno, luce che germoglia
da quei cocci aguzzi di bottiglia.
 
O padre, guarda, padre, sono foglia
che sente la stagione più temuta
avvicinarsi, diventare spoglia
 
 
 
 
ogni parola che sarà perduta
preghiere nomi versi, risonanze
di questa voce fioca che tramuta
 
in segni numinosi le speranze.
Qui notte dopo notte si tramanda
la luce della luna. Nelle stanze
 
al ritmo di un’antica sarabanda
le anime volteggiano, danziamo
corpi celesti, fiori di ghirlanda.
 
 

E infine, come ancora scrive Oldani, ricompare l’allodola, l’altro elemento che, insieme a Queneau, titola la raccolta di Mascolo

 
 
nella penombra dove consumiamo
l’attesa che l’allodola ritorni
risponda finalmente al mio richiamo
 
 

e che per l’autore è “[…] L’amor che move il sole e l’altre stelle, […] la siderale e terragna allodola canterina dell’infanzia, ma il suo eventuale canto è più quello elegante delle sirene che non l’altro, coatto, del millennio terzo, nostra meraviglia.”

Mascolo si chiede “[…] se sia davvero questo solamente / la cosa che chiamiamo poesia”. In un lavoro tanto eterogeneo e composito sembra, ad una osservazione superficiale, quasi un paradosso. Ma proprio il sovraccarico formale e repertoriale, quasi (dirò una parolaccia) “post-umanistico”, porta l’autore a farsi onestamente questa domanda, alla quale forse (per fortuna?) non verrà data mai una risposta univoca. Ma Mascolo non rinuncia comunque a suggerirci la sua personale visione del problema, ben nascosta in una selva di rifrazioni e riverberi antichi e odierni.

Chiude il libro il Lamento per violoncello solo di Silvia Colasanti, una delle più interessanti e consapevoli compositrici contemporanee: un brano di piglio rapsodico e arabescato che, come l’allodola, s’invola lontano, con grande libertà.

È forse laggiù che si trova la poesia?

 

Federico Rossignoli

 
 
 
 

[1] A cura di Bruno Berni (Donzelli, 2015)

[2] I silenziosi strumenti d’amore (Interlinea, 2014)