POESIA A CONFRONTO – Sonetti per il nuovo millennio


Foto di Dino Ignani

 
 

POESIA A CONFRONTO – Sonetti per il nuovo millennio
SCARTAGHIANDE, RABONI, FRASCA, MARI

 
 
 
 

Il sonetto è una delle forme metriche tradizionali più prestigiose e anche nel nuovo millennio mantiene inalterato il suo fascino grazie alla compattezza stilistico-formale che impone, grazie al legame imperituro verso la nostra storia letteraria. Questo porta gli autori contemporanei a considerare il sonetto un imprescindibile banco di prova per verificare le proprie capacità tecniche o un modello di riferimento da rivitalizzare o scardinare dall’interno per nuove esigenze espressive.

Di sonetti parla nel titolo della sua celebre raccolta anche Gino Scartaghiande, abbinandovi in modo inconsueto la dedica improbabile a un “King Kong”, servendosi in realtà di forme metriche che del sonetto hanno solo una vaga parvenza: il riferimento al genere va inteso in senso più ampio, probabilmente per la prevalenza del tema amoroso che permea questi versi. Della necessità di ricreare, compito assiomaticamente affidato al poeta, ricreare come “condanna”, parla del resto lo stesso autore nell’ultimo dei sonetti, i quali si contraddistinguono per il linguaggio che, con un’ibridazione molto originale, combina termini tecnici (“genoma”, “occipite”, “antimateria”, “pendolo galileiano”) con altri più comuni e colloquiali (“t’amo”, “m’ami”, “mi baci”), oltre che per i periodi brevi o brevissimi spesso spezzati, per una carnalità di fondo che li attraversa unita al senso della perdita, della disillusione per un amore ormai cosa rotta, frantumata.

Molto più fedele e osservante, almeno ufficialmente, alla forma sonetto è invece la poesia qui proposta di Raboni che riproduce il ben noto schema metrico con la suddivisione fra quartine e terzine, l’uso dell’endecasillabo, l’adozione di uno schema di rime canonico: il sonetto viene però sabotato dall’interno grazie al disallineamento fra piano sintattico e piano metrico con la frequenza parossistica degli enjambement, le interruzioni nel mezzo del verso, il tono vagamente canzonatorio che attraversa l’intera composizione tutta centrata su un tema civile evidente: la denuncia del male e della intrinseca fragilità del neocapitalismo moderno.

Profondamente consapevole dei propri mezzi tecnici si dimostra anche la prova qui presentata di Gabriele Frasca che propende per un sonetto monostrofa senza suddivisione fra terzine e quartine, ma con una struttura metrica a endecasillabi e una gabbia di rime rigidamente rispettate. Qui è l’uso del punto, esorbitante e in violazione a ogni consueta regola sintattica (si veda “ecco. la fermo. adesso me la spengo.”), che spezza insistentemente ogni verso e il flusso naturale del discorso, generando un senso di frattura insanabile che bene si combina con il tema affrontato: il dramma della perdita per il quale non esistono “rive” praticabili ma solo la consapevolezza del “freddo senza la tua mano”, della “piena di fiume” e della “corrente che sommerge” un figlio costretto al distacco irreversibile dalla madre.

Interessante anche la prova di Michele Mari nel suo ultimo libro di poesia pubblicato per Einaudi. In questo sonetto assistiamo a uno stile sfacciatamente arcaizzante, quasi un recupero archeologico alla fonte, un’immersione nel linguaggio della poesia delle origini, con ricchezza di riferimenti colti e citazioni (si vedano l’incipit leopardiano e l’atmosfera da inferno dantesco soprattutto nelle terzine) in un gioco raffinatissimo di rimandi, chicche insomma per gli affezionati della bella poesia d’antan ma con uno spirito e una sensibilità di destrutturazione tutti moderni.

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
GINO SCARTAGHIANDE
(da Sonetti d’amore per King Kong – Cooperativa scrittori, 1977)
 
SONO FUMOSE IDENTITÀ
 
Era ancora un’identità fumosa.
La pelle per esempio: scaglie
verdi, lucertole. Il genoma,
questa puttana perseverante
(sui marciapiedi di quale
cellula?)
Mai avrebbe smesso. Ma io
t’amo King Kong. Sconoscenza
altrettanto brutale del
pendolo galileiano.
Vieni con la narice dilatata.
Come un altro verbo in codice
tra il grattacielo e
l’elettrocardiogramma.
Ma io t’amo. Tu m’ami.
Mi baci, mi penetri,
penetro in te. Antimateria
ancora più violenta del corpo.
Come l’angelo coprofago
che rincorre la sintesi.
 
 
 
 
 
 
PERCHÉ L’ULTIMO?
 
Che cosa rotta. Spezzata la creta.
Ne avremo cura un’altra volta,
badate a che il primo violino
non ci sfugga. Un soffio tra
la guancia e l’occipitale.
Tutti gli universi non possono
bastare. Questo è assiomatico.
Ricreare è la nostra condanna.
Ed è l’ultimo dei sonetti d’amore.
 
 
 
 
 
 
GIOVANNI RABONI
(da Ogni terzo pensiero – Mondadori, 1993)
 
Da Altri Sonetti
 
Non sospendi un terremoto, non fermi
la deriva dei continenti; e uguale
successo avrà chi soffre il capitale
e per avversare i suoi non eterni
 
né imperscrutabili disegni sale
fiducioso su navicelle inermi
contro le sue corazzate, o in interni
sabotaggi s’avventura. Eh! a che vale,
 
colombelle mie? Tanto durerà
quanto deve, non un giorno di meno,
a nostro cupo scorno – ma nemmeno
 
uno di più. La festa si farà
senza di noi, poveri untori senza
pestilenza, solchi senza semenza.
 
 
 
 
 
 
GABRIELE FRASCA
(da Rive – Einaudi, 2001)
 
ecco. la fermo. adesso me la spengo.
sarà un momento. lento. senza vita.
il tempo di riflettere le dita
d’una mano che tiene. che trattengo.
è un’ombra sola. e in tanto sole vengo
su quella stessa strada che s’avvita.
fra me che resto. e tu che vai smarrita
nella piena di fiume che contengo.
da cui al sole un poco ancora emerge
una carezza. un’ombra tua che vive
di me. che ho freddo senza la tua mano.
in questo corso che non scorge rive.
ma solo la corrente che sommerge.
anche quel figlio che stringesti invano.
 
 
 
 
 
 
MICHELE MARI
(Da Dalla cripta – Einaudi, 2019)
 
Da GHIRLANDA
 
IV.
 
Rimembri ancor? Ma rimembrare cosa,
qui sull’arida riva che ci tiene,
e tutto fa sembrar gentile e lene
e sciolto in lontananza azzurra e rosa?
 
Di colaggiù tornare sei smaniosa,
ma sol che quelle larve fiano piene
sol che reindossi pristine catene,
noia e pena ritrovi, e non hai posa.
 
Disimplicata allor cangi pensiere,
e volto innante il guardo sí lo affisi
in nebulosi giorni e notti nere,
 
sperando di vedere i bei sorrisi
dell’anime che fûrti più sincere:
ma l’altro margo tienle, e non gli elisi.