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POESIA A CONFRONTO – Solitudini
PETRARCA, LEOPARDI, CAMERANA, PAVESE
La solitudine è uno degli stati d’animo più frequenti; spesso osteggiata, per l’inquietudine che induce, altre volte ricercata come luogo della riflessione interiore e del raccoglimento, è senza dubbio lo spazio dove è solita nascere la poesia.
Il sonetto di Petrarca, molto celebre, con cui apriamo questa rassegna, è tutto giocato su una serie di contrapposizioni e di ossimori, che servono a dare evidenza alla conflittualità interiore di chi, da un lato, cerca di fuggire dalle pene d’amore e, dall’altro, vi è impossibilitato, perché il confronto e il dialogo con Amore sono irrinunciabili. Gli spazi deserti, la loro vastità (amplificata con l’uso del polisindeto e della elencazione), in cui il poeta cerca rifugio per sottrarsi agli occhi indiscreti della gente, non riescono dunque a essere consolatori; la natura stessa sembra comprendere il travaglio del poeta, che non può mentire, sottraendosi al sentimento che lo assilla.
L’idillio di Leopardi istituisce una similitudine evidente, un vero e proprio parallelismo, fra la condizione d’uomo del poeta e quella del volatile del titolo, per necessità naturale indotto a essere “solitario”, a differenza del poeta che lo è invece per scelta, per difficoltà oggettiva a confrontarsi con gli altri, a essere accettato e compreso dalla sua comunità, “il natio borgo selvaggio”. L’incapacità a vivere i tesori della giovinezza diventa allora l’ammissione di una colpa che dovrà essere scontata, di cui ci si dovrà necessariamente pentire. La solitudine diventa uno stato d’animo obbligato a cui si è incapaci di porre rimedio.
Brevissima la composizione di Camerana, autore appartenente alla temperie della scapigliatura, le cui poesie sono state quasi integralmente pubblicate postume, per sua scelta. La composizione gioca su iterazione e enjambement per creare un ritmo sincopato, un senso quasi claustrofobico che anticipa il “male di vivere” montaliano; il mondo, in cui l’uomo si ritrova, è “infranto”, “bieco”, la solitudine “nera” lo ha privato di ogni interesse oggettivo.
La poesia di Pavese, tratta da “Lavorare stanca”, rappresenta plasticamente il senso della solitudine nella figura di questo “uomo solo”, uscito di prigione, il quale cerca di rappropriarsi del significato della vita, scoprendo in realtà che tutto quanto poteva essere sperato in carcere perde di valore nei nuovi giorni che lo attendono. Il tema della lepre, del pane e del “vino triste”, quest’ultimo molto caro a Pavese, emergono come figure di evidenza materica, diventano simboli di un realismo estremo. Nonostante la disillusione della vita, bastano “un fischio alla cagna”, il riapparire di una lepre per spezzare, almeno momentaneamente, questo cerchio asfittico che grava sul capo dell’”uomo solo”.
Fabrizio Bregoli
FRANCESCO PETRARCA
(Da Rerum Vulgarium Fragmenta (Canzoniere) – 1374)
Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:
sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.
Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co·llui.
GIACOMO LEOPARDI
(Da Canti – Saverio Starita, Napoli – 1835)
IL PASSERO SOLITARIO
D’in su la vetta della torre antica,
passero solitario, alla campagna
cantando vai finché non more il giorno;
ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera d’intorno
brilla nell’aria, e per li campi esulta,
sí ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
gli altri augelli contenti, a gara insieme
per lo libero ciel fan mille giri,
pur festeggiando il lor tempo migliore:
tu pensoso in disparte il tutto miri;
non compagni, non voli,
non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
canti, e cosí trapassi
dell’anno e di tua vita il piú bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
della novella etá dolce famiglia,
e te, german di giovinezza, amore,
sospiro acerbo de’ provetti giorni,
non curo, io non so come; anzi da loro
quasi fuggo lontano;
quasi romito, e strano
al mio loco natio,
passo del viver mio la primavera.
Questo giorno, ch’omai cede alla sera,
festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
odi spesso un tonar di ferree canne,
che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
la gioventú del loco
lascia le case, e per le vie si spande;
e mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io, solitario in questa
rimota parte alla campagna uscendo,
ogni diletto e gioco
indugio in altro tempo; e intanto il guardo
steso nell’aria aprica
mi fère il sol, che tra lontani monti,
dopo il giorno sereno,
cadendo si dilegua, e par che dica
che la beata gioventú vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; ché di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all’altrui core,
e lor fia vòto il mondo, e il dí futuro
del dí presente piú noioso e tetro,
che parrá di tal voglia?
che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi! pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro.
GIOVANNI CAMERANA
LA NERA SOLITUDINE
La nera solitudine alla nera
solitudine; – il sogno alto al profondo
pensier; – la sera che è triste, alla sera
che piange; – al mondo infranto, il bieco mondo.
(pubblicata postuma nel 1907)
CESARE PAVESE
(Da Lavorare stanca – Solaria, 1936 / Einaudi, 1943)
L’UOMO SOLO
L’uomo solo – che è stato in prigione – ritorna in prigione
ogni volta che morde in un pezzo di pane.
In prigione sognava le lepri che fuggono
sul terriccio invernale. Nella nebbia d’inverno
l’uomo vive tra muri di strade, bevendo
acqua fredda e mordendo in un pezzo di pane.
Uno crede che dopo rinasca la vita,
che il respiro si calmi, che ritorni l’inverno
con l’odore del vino nella calda osteria,
e il buon fuoco, la stalla, e le cene. Uno crede,
fin che è dentro uno crede. Si esce fuori una sera,
e le lepri le han prese e le mangiano al caldo
gli altri, allegri. Bisogna guardarli dai vetri.
L’uomo solo osa entrare per bere un bicchiere
quando proprio si gela, e contempla il suo vino:
il colore fumoso, il sapore pesante.
Morde il pezzo di pane, che sapeva di lepre
in prigione, ma adesso non sa più di pane
né di nulla. E anche il vino non sa che di nebbia.
L’uomo solo ripensa a quei campi, contento
di saperli già arati. Nella sala deserta
sottovoce si prova a cantare. Rivede
lungo l’argine il ciuffo di rovi spogliati
che in agosto fu verde. Dà un fischio alla cagna.
E compare la lepre e non hanno più freddo.