POESIA A CONFRONTO – Padri

Giovanni Raboni
 
 

POESIA A CONFRONTO – Padri
SBARBARO, SINISGALLI, CUCCHI, RABONI

 
 

Il padre è tema ricorrente nella poesia di tutti i tempi, soprattutto in relazione alla figura del figlio che vede da sempre in lui una figura di riferimento, in molti casi problematica e conflittuale, ma in ogni caso essenziale per la crescita, per la sua formazione d’uomo.

In questa rassegna di poesie sul padre partiamo dalla celebre poesia di Sbarbaro, tutta centrata sul sentimento, sull’affetto di un figlio (“per te stesso, egualmente t’amerei”) verso il padre che vede come riferimento di bontà, guida indiscutibile perfino nel caso in cui avvenisse il paradosso che si ipotizza nei primi versi (“se anche tu non fossi il mio / padre, se anche fossi a me un estraneo”). La poesia procede con andamento narrativo, scandito dalla colloquialità degli endecasillabi, rievocando episodi famigliari, a esempio della tesi sostenuta, fino alla ripetizione dell’ultima strofa in cui la figura del padre appare nella sua evidenza di “cuore fanciullo”, che lo rende unico “fra tutti gli uomini”.

Anche Sinisgalli ci propone un quadro famigliare, i gesti consueti di un padre che pur essendo “un piccolo uomo” appare come “un punto vivo all’orizzonte”, nella calma tranquillità di una sera comune, negli atti della vita contadina (“le rape nella vasca”, “terriccio sulle scarpe”). Al padre ci si riferisce sempre come “l’uomo”, uno fra tanti, ma insostituibile pur nella sua ordinarietà.
Raboni ci parla di un padre mancato da anni, “entrato nel niente”, per il quale il figlio diventa “fratello”, ora che con il passare degli anni il suo fisico ne ha assunto sempre più le forme, la fragilità dell’età avanzata. Al padre eroe che negli anni della guerra sfamava la famiglia con i poveri mezzi consentiti (“le strane provviste di quegli anni, formaggio fuso, marmellata / senza zucchero, pane senza lievito,”) nella Milano devastata (“città sbranata”, “città oscura”), padre per cui era giusto e doveroso pregare “per le sue coronarie”, subentra ora il figlio-padre, anche lui malato di cuore, che può solo vantare “una povera guerra, piana e vile”, la guerra quotidiana “povera / d’ostinazione, d’obbedienza” per i suoi figli, dai quali è davvero troppo poter pretendere “una preghiera”. Poesia di sentimento e ragione insieme quella di Raboni, schietta nella forma: vera.

Ancora più essenziale, scarna, la poesia di Cucchi in cui il ricordo del padre, a cui si è sempre riferito con un alias (“Glenn” in onore di Glenn Ford e/o Glenn Miller), ora sbalza dal foglio nella forma esplicita del suo nome “vero e semplice”: “Luigi”. È giunto il momento di dire per chi ha “taciuto” e “oggi non [tace] più”, anche se quel nome continua ad essere una “crepa d’affetto” (sintagma in cui dettaglio concreto e termine astratto si combinano in un effetto magistrale): la memoria è tuttavia manchevole, “smangiata”, cerca una strada pur sapendo quanto è difficile riportare al presente ciò che si è perso, di cui non rimane “nemmeno […] la voce”.

Fabrizio Bregoli

 
 
 
CAMILLO SBARBARO
 
(Da Pianissimo – Edizioni de “La voce”, 1914)
 
A MIO PADRE
 
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso, egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.
E di quell’ altra volta mi ricordo
che la sorella, mia piccola ancora,
per la casa inseguivi minacciando.
(la caparbia avea fatto non so che)
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura, ti mancava il cuore:
che avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia e, tutta spaventata,
tu vacillante l’attiravi al petto
e con carezze dentro le tue braccia
avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo ch’era il tu di prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei.
 
 
 
 
 
 
LEONARDO SINISGALLI
(Da Vidi le muse – Mondadori, 1943)
 
A MIO PADRE
 
L’uomo che torna solo
A tarda sera dalla vigna
Scuote le rape nella vasca
Sbuca dal viottolo con la paglia
Macchiata di verderame.
L’uomo che porta così fresco
Terriccio sulle scarpe, odore
Di fresca sera nei vestiti
Si ferma a una fonte, parla
con l’ortolano che sradica i finocchi.
E’ un uomo, un piccolo uomo
Ch’io guardo di lontano.
E’ un punto vivo all’orizzonte.
Forse la sua pupilla
Si accende questa sera
Accanto alla peschiera
Dove si asciuga la fronte.
 
 
 
 
 
 
GIOVANNI RABONI
(Da A tanto caro sangue (1956-1987) – in Tutte le poesie, Einaudi, 2014)
 
LA GUERRA
 
Ho gli anni di mio padre – ho le sue mani,
quasi: le dita specialmente, le unghie,
curve e un po’ spesse, lunate (ma le mie
senza il marrone della nicotina)
quando, gualcito e impeccabile, viaggiava
su mitragliati treni e corriere
portando a noi tranquilli villeggianti
fuori tiro e stagione
nella sua bella borsa leggera
le strane provviste di quegli anni, formaggio fuso, marmellata
senza zucchero, pane senza lievito,
immagini della città oscura, della città sbranata
cosí dolci, ricordo, al nostro cuore.
Guardavamo ai suoi anni con spavento.
Dal sotto in su, dal basso della mia
secondogenitura, per le sue coronarie
mormoravo ogni tanto una preghiera.
Adesso, dopo tanto
che lui è entrato nel niente e gli divento
giorno dopo giorno fratello, fra non molto
fratello piú grande, piú sapiente, vorrei tanto sapere
se anche i miei figli, qualche volta, pregano per me.
Ma subito, contraddicendomi, mi dico
che no, che ci mancherebbe altro, che nessuno
meno di me ha viaggiato fra me e loro,
che quello che gli ho dato, che mangiare
era? non c’era cibo nel mio andarmene
come un ladro e tornare a mani vuote…
Una povera guerra, piana e vile,
mi dico, la mia, cosí povera
d’ostinazione, d’obbedienza. E prego
che lascino perdere, che non per me
gli venga voglia di pregare.
 
 
 
 
 
 
MAURIZIO CUCCHI
(Da L’ultimo viaggio di Glenn – Mondadori, 1999)
 
Glenn, come lo chiamavo nella mia mente io,
o com’è più vero e semplice,
com’è più vero:
Luigi.
Resti per me una crepa d’affetto
o un lampo intermittente nel cervello.
E anche tu, che non l’hai mai visto,
lo ami.
Tu che hai taciuto, e oggi non taci più,
hai la memoria smangiata come la tua macula:
cerchi e non trovi più
nemmeno la sua voce.