POESIA A CONFRONTO – Maestri

POESIA A CONFRONTO - Maestri

 
 

POESIA A CONFRONTO – Maestri
DANTE, PRAGA, POUND, VALDUGA

 
 

Ogni autore, aldilà dell’originalità e dell’intima ragione che muove i suoi versi, non può rinunciare alla tradizione letteraria che lo ha preceduto e, sia esso esplicitamente dichiarato o meno, ha sempre dei modelli, dei maestri ai quali è, a vario titolo, debitore. Dalla unione fertile fra innovazione e tradizione la letteratura trae nuova linfa, nuove forme di espressione. Dedichiamo quindi questo intervento ai maestri, alle guide che per gli autori qui analizzati sono un importante termine di confronto.

Nel caso di Dante è impossibile ignorare Virgilio, tanto che Dante lo elegge a sua guida nei primi due regni ultraterreni. Virgilio è “maestro”, “de li altri poeti onore e lume”, è stato lui a insegnare a Dante “lo bello stilo”, l’arte dei versi, ed è lui che aiuterà lo “scolaretto” Dante a comprendere passo a passo la complessa architettura, la logica profonda sottesa a Inferno e Purgatorio, accompagnandolo nel suo viaggio di redenzione etica e spirituale.

Dante incontra nel suo viaggio ultraterreno anche altri fondamentali maestri fra cui, in Purgatorio, Guido Guinizzelli, “il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre”, padre ideale dello Stilnovo e di tutti i “fedeli d’amore”, ma pure lui penitente fra i lussuriosi “secondo natura”. È lui a indicare a Dante l’altro grande maestro della poesia cortese, il provenzale Arnaut Daniel, a cui Dante rivendica il primato fra tutti i provenzali come “miglior fabbro del parlar materno” e a cui concede l’onore di parlare nella sua splendida lingua per una preghiera, a invocare l’intercessione a remissione dei peccati, per tutti loro che sono nel “foco che li affina”.

Il rapporto con i maestri può essere anche di ripudio, come avviene per Emilio Praga, figlio della Scapigliatura milanese, che nel suo “Preludio” adotta tutto il linguaggio e le espressioni dei poeti maledetti, Baudelaire in particolare, le cui citazioni sono insistenti nel testo (“Noia”, “Ideale”, “fango”, “nemico lettor”, “bagni d’azzurro”) per un evidente bersaglio polemico. Il “nemico” da abbattere è Manzoni, “casto poeta che l’Italia adora”, emblema di tutto un perbenismo in poesia contro cui la Scapigliatura scende in campo, in ulteriore polemica con Manzoni, per dire “il vero”, che non è il vero manzoniano, ma solo “una misera canzone” scritta dai “figli dei padri ammalati”.

Di una riappacificazione parla invece Ezra Pound (anche lui “il miglior fabbro” nella dedica di T. S. Eliot), dichiarando che è giunto il tempo di “fare commercio” con il grande padre della poesia americana, Walt Whitman. È un riconoscimento accorato al valore della tradizione a cui non si può rinunciare: si nasce da una stessa radice, lo stesso è il legno da lavorare, un percorso ininterrotto e condiviso la poesia.

La Valduga, con la sua ben nota vis polemica, non si risparmia invece in un attacco frontale a Leopardi, volutamente denigrato e parodiato con i suoi stessi versi tutti “lune e duoli”, buoni solo per “adolescenti segaioli”, depressi, “pelandroni”. In un altro suo noto intervento la Valduga sostiene espressamente che Leopardi non è un poeta (troppo filosofo per essere poeta) a differenza di Monti, poeta vero. Al diavolo Leopardi allora! Meglio, molto meglio Pascoli e… Manzoni (chissà cosa penserebbe della Valduga il buon Praga…)

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
DANTE
(Da La Commedia)
 
INFERNO, CANTO I, vv.61-93, vv. 112-135
 
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
 
Quando vidi costui nel gran diserto,
“Miserere di me”, gridai a lui,
“qual che tu sii, od ombra od omo certo!”.
 
Rispuosemi: “Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
 
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
 
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.
 
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?”.
 
“Or se’ tu quel Virgilio” e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?”,
rispuos’io lui con vergognosa fronte.
 
“O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume.
 
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ ha fatto onore.
 
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi”.
 
“A te convien tenere altro vïaggio”,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
“se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
 
[…]  
Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
 
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;
 
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
 
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
 
ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.
 
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!”.
 
E io a lui: “Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio,
 
che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti”.
 
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
 
 
 
 
 
 
DANTE
(Da La Commedia)
 
PURGATORIO, CANTO XXVI, vv.91-148
 
Farotti ben di me volere scemo:
son Guido Guinizzelli, e già mi purgo
per ben dolermi prima ch’a lo stremo”.
 
Quali ne la tristizia di Ligurgo
si fer due figli a riveder la madre,
tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo,
 
quand’io odo nomar sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d’amor usar dolci e leggiadre;
 
e sanza udire e dir pensoso andai
lunga fïata rimirando lui,
né, per lo foco, in là più m’appressai.
 
Poi che di riguardar pasciuto fui,
tutto m’offersi pronto al suo servigio
con l’affermar che fa credere altrui.
 
Ed elli a me: “Tu lasci tal vestigio,
per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro,
che Letè nol può tòrre né far bigio.
 
Ma se le tue parole or ver giuraro,
dimmi che è cagion per che dimostri
nel dire e nel guardar d’avermi caro”.
 
E io a lui: “Li dolci detti vostri,
che, quanto durerà l’uso moderno,
faranno cari ancora i loro incostri”.
 
“O frate”, disse, “questi ch’io ti cerno
col dito”, e additò un spirto innanzi,
“fu miglior fabbro del parlar materno.
 
Versi d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch’avanzi.
 
A voce più ch’al ver drizzan li volti,
e così ferman sua oppinïone
prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti.
 
Così fer molti antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l’ha vinto il ver con più persone.
 
Or se tu hai sì ampio privilegio,
che licito ti sia l’andare al chiostro
nel quale è Cristo abate del collegio,
 
falli per me un dir d’un paternostro,
quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non è più nostro”.
 
Poi, forse per dar luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per l’acqua il pesce andando al fondo.
 
Io mi fei al mostrato innanzi un poco,
e dissi ch’al suo nome il mio disire
apparecchiava grazïoso loco.
 
El cominciò liberamente a dire:
“Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
 
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’ esper, denan.
 
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!”.
 
Poi s’ascose nel foco che li affina.
 
 
 
 
 
 
EMILIO PRAGA
(Da Penombre – Milano, 1864)
 
PRELUDIO
 
Noi siamo i figli dei padri ammalati:
aquile al tempo di mutar le piume,
svolazziam muti, attoniti, affamati,
sull’agonia di un nume.
 
Nebbia remota è lo splendor dell’arca,
e già all’idolo d’or torna l’umano,
e dal vertice sacro il patriarca
s’attende invano;
 
s’attende invano dalla musa bianca
che abitò venti secoli il Calvario,
e invan l’esausta vergine s’abbranca
ai lembi del Sudario…
 
Casto poeta che l ‘Italia adora,
vegliardo in sante visioni assorto,
tu puoi morir!… Degli antecristi è l’ora!
Cristo è rimorto!
 
O nemico lettor, canto la Noia,
l’eredità del dubbio e dell’ignoto,
il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia, il tuo cielo,
e il tuo loto!
 
Canto litane di martire e d’empio;
canto gli amori dei sette peccati
che mi stanno nel cor, come in un tempio,
inginocchiati.
 
Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro,
e l’Ideale che annega nel fango…
Non irrider, fratello, al mio sussurro,
se qualche volta piango:
 
giacché più del mio pallido demone,
odio il minio e la maschera al pensiero,
giacché canto una misera canzone,
ma canto il vero!
 
 
 
 
 
 
EZRA POUND
(Da Lustra – 1917)
 
A PACT
 
I make a pact with you, Walt Whitman –
I have detested you long enough.
I come to you as a grown child
Who has had a pig-headed father;
I am old enough now to make friends.
It was you who broke the new wood,
Now is a time for carving.
We have one sap and one root –
Let there be commerce between us.
 
 
 
 
UN PATTO
 
Stringo un patto con te, Walt Whitman –
Ti detesto da troppo tempo, ormai.
Vengo da te come un bambino cresciuto
che ha avuto un padre dannatamente testardo;
ora sono grande abbastanza perché si diventi amici.
Sei stato tu a spezzare il nuovo legno,
ora è tempo di lavorarlo.
Siamo una sola linfa e una sola radice –
Lasciamo che ci sia commercio tra di noi.
 
(traduzione di Fabrizio Bregoli)
 
 
 
 
 
 
PATRIZIA VALDUGA
(Da Corsia degli incurabili – Mondadori, “Il nuovo Specchio” – 1991)
 
Sì sì! tenetevi la vostra luna!
Il gobbo l’ha talmente sputtanata
che non vederla più è una fortuna.
 
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai?
Tu senti che domanda scriteriata…
Povera luna, che ha da fare mai?
 
Tutti gli adolescenti segaioli,
con l’acne che gli dà le depressioni,
adorano Leopardi, lune e duoli,
 
adorano se stessi, pelandroni…
Io preferisco Pascoli e Manzoni.