POESIA A CONFRONTO: L’Italia in poesia

Pier Paolo Pasolini
 
 

POESIA A CONFRONTO: L’Italia in poesia
DANTE, PETRARCA, MAMELI, PASOLINI

 
 

Le poesie proposte oggi, all’insegna del più sincero patriottismo, sono dedicate al nostro Paese, al “bel paese là dove ‘l sì suona” (Inf. XXXIII, v. 80).

E proprio da Dante partiamo, dal Dante del Canto VI del Purgatorio in cui, per voce di Sordello, è l’amara invettiva a un paese, che si è fatto servo, a dominare completamente lo spazio centrale del canto. Usando toni che oscillano dal rimbrotto al sarcasmo, Dante mette a nudo le contraddizioni del Paese, le continue lotte intestine che vedono fra di loro coinvolte le diverse città, con l’incapacità da parte dell’autorità imperiale di rispristinare l’ordine, la coesione che sarebbe auspicabile per il suo “giardino”. Molti dei vizi, delle incapacità e delle inefficienze che vengono denunciate da Dante hanno una sorprendente similitudine con le attuali, tanto da rendere l’invettiva quanto mai applicabile al contesto di oggi.

Petrarca si serve della forma più nobile della tradizione, la canzone, per realizzare una composizione, accorata e tragica insieme, in cui, come Dante, denuncia l’odio dilagante nel Paese, lo stato persistente di guerra che lo domina; il tutto senza voler edulcorare i fatti, ma con una aderenza completa alla verità degli stessi: “Io parlo per ver dire, / non per odio d’altrui, né per disprezzo.” Si tratta di una denuncia e un canto di speranza insieme, una preghiera perché ogni inutile dissidio fra gli uomini, uniti dalla patria comune, venga deposto a favore della missione al bene che deve guidare ciascuno, verso l’unico traguardo che davvero conta: la “pace”, invocata per ben tre volte nel finale.

Il nostro inno nazionale, come ben noto, nasce da un canto patriottico in versi scritto dal giovane Goffredo Mameli, che morirà a soli 21 anni nella difesa della Repubblica Romana. Il canto, strutturato in sei strofe e un ritornello, è un invito alla fratellanza di tutti gli Italiani nella comune causa di liberazione dalla dominazione straniera, un invito al coraggio e alla determinazione ad agire. Per dare forza al messaggio, l’autore ricorre a una serie di immagini desunte dalla tradizione storica della nazione, che siano d’esempio e sprone ai suoi contemporanei, con l’intento di costruire uno sostrato di valori comuni di riferimento.

All’opposto, Pasolini ci dà l’esempio di una perfetta poesia anti-retorica e anti-patriottica in cui si espongono spudoratamente tutti i limiti, i difetti, le ipocrisie del popolo italiano, piagato dal conformismo, dal compromesso, dalla corruzione. Una poesia civile, nel senso alto della parola, con i toni dell’invettiva senza possibilità di riscatto, se l’unica alternativa che resta al Paese è, appunto, quello di sprofondare nel mare, liberare il mondo.

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
DANTE
(Da La Divina Commedia, Purgatorio VI, vv.76-151)
 
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
 
Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
 
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.
 
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
 
Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’esso fora la vergogna meno.
 
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
 
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
 
O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
 
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!
 
Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.
 
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
 
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’è oscura!
 
Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
“Cesare mio, perché non m’accompagne?”.
 
Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
 
E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
 
O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?
 
Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
 
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.
 
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ ha in sommo de la bocca.
 
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: “I’ mi sobbarco!”.
 
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.
 
Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
 
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.
 
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!
 
E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
 
ma con dar volta suo dolore scherma.
 
 
 
 
 
 
FRANCESCO PETRARCA
(da Rerum Vulgarium Fragmenta)
 
CXXVIII.
 
Italia mia, benché ’l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sí spesse veggio,
piacemi almen che ’ miei sospir’ sian quali
spera ’l Tevero et l’Arno,
e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che Ti condusse in terra
Ti volga al Tuo dilecto almo paese.
Vedi, Segnor cortese,
di che lievi cagion’ che crudel guerra;
e i cor’, che ’ndura et serra
Marte superbo et fero,
apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda;
ivi fa che ’l Tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.
 
Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
perché ’l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga:
poco vedete, et parvi veder molto,
ché ’n cor venale amor cercate o fede.
Qual piú gente possede,
colui è piú da’ suoi nemici avolto.
O diluvio raccolto
di che deserti strani
per inondar i nostri dolci campi!
Se da le proprie mani
questo n’avene, or chi fia che ne scampi?
 
Ben provide Natura al nostro stato,
quando de l’Alpi schermo
pose fra noi et la tedesca rabbia;
ma ’l desir cieco, e ’ncontr’al suo ben fermo,
s’è poi tanto ingegnato,
ch’al corpo sano à procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
fiere selvagge et mansüete gregge
s’annidan sí che sempre il miglior geme:
et è questo del seme,
per piú dolor, del popol senza legge,
al qual, come si legge,
Mario aperse sí ’l fianco,
che memoria de l’opra ancho non langue,
quando assetato et stanco
non piú bevve del fiume acqua che sangue.
 
Cesare taccio che per ogni piaggia
fece l’erbe sanguigne
di lor vene, ove ’l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
che ’l cielo in odio n’aggia:
vostra mercé, cui tanto si commise.
Vostre voglie divise
guastan del mondo la piú bella parte.
Qual colpa, qual giudicio o qual destino
fastidire il vicino
povero, et le fortune afflicte et sparte
perseguire, e ’n disparte
cercar gente et gradire,
che sparga ’l sangue et venda l’alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
non per odio d’altrui, né per disprezzo.
 
Né v’accorgete anchor per tante prove
del bavarico inganno
ch’alzando il dito colla morte scherza?
Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l danno;
ma ’l vostro sangue piove
piú largamente, ch’altr’ira vi sferza.
Da la matina a terza
di voi pensate, et vederete come
tien caro altrui che tien sé cosí vile.
Latin sangue gentile,
sgombra da te queste dannose some;
non far idolo un nome
vano senza soggetto:
ché ’l furor de lassú, gente ritrosa,
vincerne d’intellecto,
peccato è nostro, et non natural cosa.
 
Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?
Non è questo il mio nido
ove nudrito fui sí dolcemente?
Non è questa la patria in ch’io mi fido,
madre benigna et pia,
che copre l’un et l’altro mio parente?
Perdio, questo la mente
talor vi mova, et con pietà guardate
le lagrime del popol doloroso,
che sol da voi riposo
dopo Dio spera; et pur che voi mostriate
segno alcun di pietate,
vertú contra furore
prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto:
ché l’antiquo valore
ne gli italici cor’ non è anchor morto.
 
Signor’, mirate come ’l tempo vola,
et sí come la vita
fugge, et la morte n’è sovra le spalle.
Voi siete or qui; pensate a la partita:
ché l’alma ignuda et sola
conven ch’arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle
piacciavi porre giú l’odio et lo sdegno,
vènti contrari a la vita serena;
et quel che ’n altrui pena
tempo si spende, in qualche acto piú degno
o di mano o d’ingegno,
in qualche bella lode,
in qualche honesto studio si converta:
cosí qua giú si gode,
et la strada del ciel si trova aperta.
 
Canzone, io t’ammonisco
che tua ragion cortesemente dica,
perché fra gente altera ir ti convene,
et le voglie son piene
già de l’usanza pessima et antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura
fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace.
Di’ lor: – Chi m’assicura?
I’ vo gridando: Pace, pace, pace. –
 
 
 
 
 
 
GOFFREDO MAMELI
(1847)
 
CANZONE DEGLI ITALIANI
 
Fratelli d’Italia,
l’Italia s’è desta,
dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa.
Dov’è la vittoria?!
Le porga la chioma,
ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte,
Siam pronti alla morte;
L’Italia chiamò
Noi siamo da secoli
calpesti, derisi
perché non siam Popolo
perché siam divisi
Accolgaci un’unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte;
l’Italia chiamò.
Uniamoci, amiamoci,
l’unione e l’amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore;
giuriamo far libero
il suolo natio:
uniti per Dio,
chi vincer ci può!?
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte;
l’Italia chiamò.
Dall’Alpi a Sicilia
dovunque è Legnano,
ogn’uom di Ferruccio
ha il core, ha la mano,
i bimbi d’Italia
si chiaman Balilla,
il suon d’ogni squilla
i Vespri suonò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte;
l’Italia chiamò.
Son giunchi che piegano
le spade vendute:
ah l’aquila d’Austria
le penne ha perdute;
il sangue d’Italia
bevé, col Cosacco
il sangue polacco:
ma il cor le bruciò
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte;
l’Italia chiamò.
Fratelli d’Italia,
l’Italia s’è desta,
dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa.
Dov’è la vittoria?!
Le porga la chioma,
ché schiava di Roma
Iddio la creò.
 
(Da La letteratura italiana, Storia e Testi, Poeti minori dell’Ottocento, Volume 58, tomo II, a cura di Luigi Baldacci e Giuliano Innamorati, Riccardo Ricciardi Editore, Milano – Napoli 1963, pp. 1059-1061)
 
 
 
 
 
 
PIERPAOLO PASOLINI
(Da La religione del mio tempo, Milano, Garzanti 1961)
 
ALLA MIA NAZIONE
 
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
 
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
 
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.