POESIA A CONFRONTO- La poesia e la danza
RILKE, GARCÍA LORCA, BORGES, MONTALE, FOSCOLO
La danza, forma d’arte che prevede la capacità di creare armonia modulando il corpo nello spazio, con la coordinazione e l’articolazione dei movimenti, in associazione con la musica, ha molti punti di contatto con la poesia che persegue obiettivi simili: veicolare, anche se con strumenti diversi (il corpo per la danza, la parola per la poesia), intensità espressive che facciano leva sulla sfera emotiva, e quindi, in ultima battuta, sulla sfera esistenziale, del soggetto con cui si pone in dialogo. La poesia si è sempre mostrata attenta alla danza, scrivendone in molte forme e modalità.
Con Rilke, nelle sue nuove poesie interamente ispirate al principio della poetica della “cosa” – cioè della centralità del soggetto/oggetto come tema della poesia che deve esplorarne il mistero nascosto, il sostrato più profondo – troviamo la celebre poesia dedicata alla “danzatrice spagnola”. Tutta la poesia è costruita sulla similitudine fra la ballerina e il fuoco: la danza è un incendio che scuote e incanta lo spettatore. La danza è qui l’arte di generare e dominare il fuoco, fiamma viva che accade improvvisa, seduce e imbriglia chi da spettatore vive la sua esperienza.
Con Garcìa Lorca veniamo invece condotti nella magia della musica e della danza gitane, nel “Giardino de la Petenera”: la poesia, tutta giocata sulla sfera cromatica, accende una luce improvvisa in questo giardino notturno dove “sei gitane / vestite di bianco” danzano e con i loro movimenti sembrano rischiarare l’ombra, fino a sfiorare il cielo, congiungere l’uomo a una realtà che lo trascende, appena sfiorata, intuita.
Con Borges assistiamo invece alla celebrazione della danza argentina per eccellenza: “il tango”, danza che assomma in sé “la festa e l’innocenza del coraggio” e di cui si celebrano le origini nei bassifondi, tra la teppaglia dal coltello facile, di cui il tango resta unica e autentica testimonianza, “brace” di un tempo cancellato, “vaga rosa” che ne serba la memoria. E il tango “ha il sapore di quel che abbiamo perso, / che abbiamo perso e a un tratto ritrovato”, con la sua melodia sa durare oltre la polvere a cui sarà ridotto l’uomo, lasciare un segno ancora vivo e intatto di quelle vite che furono, così impure, criminali, eppure dannatamente affascinanti.
A “una danzatrice stanca” (si tratta di Carla Fracci) si rivolge Montale, con un tono a metà fra l’ironico (anche caricaturale verso certa poesia di maniera) e l’affettuoso, in linea con lo stile dei suoi ultimi “diari” in versi: è un augurio per una pronta guarigione, per la “rifioritura / d’una convalescente” che si spera possa tornare al più presto sul palco a mostrare i suoi prodigi di danza celestiale; anzi è necessario questo ritorno, perché senza di lei la danza è la vera malata, ridotta a “nivei défilés di morte”.
Tema questo dell’augurio ad “un’amica risanata” che troviamo anche in Foscolo, nella sua celebre ode, scritta circa 170 anni prima, dove l’augurio è, anche in questo caso, quello di poter rivedere l’amica cimentarsi, con la grazia che la contraddistingue, nell’arte raffinata della danza. Tanto ricca di riferimenti classici e mitologici la poesia di Foscolo e tanto – all’opposto – prosaica, colloquiale quella di Montale, poesia che apre le porte a quel recupero del dimesso, del minimalismo che segnerà molto l’ultimo Novecento.
Fabrizio Bregoli
RAINER MARIA RILKE
(Da Neue Gedichte / Nuove Poesie – 1907)
SPANISCHE TÄNZERIN
Wie in der Hand ein Schwefelzündholz, weiß,
eh es zur Flamme kommt, nach allen Seiten
zuckende Zungen streckt -: beginnt im Kreis
naher Beschauer hastig, hell und heiß
ihr runder Tanz sich zuckend auszubreiten.
Und plötzlich ist er Flamme, ganz und gar.
Mit einem Blick entzündet sie ihr Haar
und dreht auf einmal mit gewagter Kunst
ihr ganzes Kleid in diese Feuersbrunst,
aus welcher sich, wie Schlangen die erschrecken,
die nackten Arme wach und klappernd strecken.
Und dann: als würde ihr das Feuer knapp,
nimmt sie es ganz zusamm und wirft es ab
sehr herrisch, mit hochmütiger Gebärde
und schaut: da liegt es rasend auf der Erde
und flammt noch immer und ergiebt sich nicht -.
Doch sieghaft, sicher und mit einem süßen
grüßenden Lächeln hebt sie ihr Gesicht
und stampft es aus mit kleinen Füßen.
DANZATRICE SPAGNOLA
Come in mano uno zolfanello bianco,
prima di far fiamma, da ogni lato
sprezza lingue di fuoco – così rapido e ardente
nel cerchio stretto degli spettatori a scatti
il suo ballo rotondo incomincia a diffondersi.
E all’improvviso è fiamma, fiamma piena.
Con uno sguardo accende i suoi capelli
e di colpo con arte temeraria
l’intera veste ruota in questo incendio
da cui scattano con tremendi battiti
come serpi le braccia vive, nude.
Poi: come se non le bastasse il fuoco,
tutto lo aduna e da sé imperiosa
lo scuote con un fiero gesto e guarda:
eccolo: sulla terra si dibatte,
si leva ancora in fiamme e non s’arrende.
Ma sicura, trionfante, alzando il viso
in un dolce sorriso di saluto,
sotto i forti piedini pestandolo lo estingue.
(Traduzione di Giacomo Cacciapaglia
Da Poesie 1907-1926, Einaudi ET, 2000 – a cura di Andreina Lavagetto)
FEDERICO GARCÍA LORCA
(Da Poema del Cante Jondo – Romancero Gitano – 1931)
DANZA EN EL HUERTO DE LA PETENERA
En la noche del huerto
seis gitanas
vestidas de blanco
bailan.
En la noche del huerto,
coronadas
con rosas de papel
y biznagas.
En la noche del huerto
sus dientes de nácar,
escriben la sombra
quemada.
Y en la noche del huerto
sus sombras se alargan,
y llegan hasta el cielo
moradas.
DANZA NEL GIARDINO DELLA PETENERA
Nella notte del giardino
ballano
sei gitane
vestite di bianco.
Nella notte del giardino,
incoronate
di rose di carta
e visnaghe.
Nella notte del giardino
i loro denti di perla
scrivono l’ombra
fulminata.
E nella notte del giardino
le loro ombre si allungano
e toccano il cielo
color della mora.
JORGE LUIS BORGES
(Da El otro, el mismo – 1964, Adelphi 2002)
EL TANGO
¿Dónde estarán?, pregunta la elegía
de quienes ya no son, como si hubiera
una región en que el Ayer pudiera
ser el Hoy, el Aún y el Todavía.
¿Dónde estará (repito) el malevaje
que fundó, en polvorientos callejones
de tierra o en perdidas poblaciones,
la secta del cuchillo y del coraje?
¿Dónde estarán aquellos que pasaron,
dejando a la epopeya un episodio,
una fábula al tiempo, y que sin odio,
lucro o pasión de amor se acuchillaron?
Los busco en su leyenda, en la postrera
brasa que, a modo de una vaga rosa,
guarda algo de esa chusma valerosa
de los Corrales y de Balvanera.
¿Qué oscuros callejones o qué yermo
del otro mundo habitará la dura
sombra de aquel que era una sombra oscura,
Muraña, ese cuchillo de Palermo?
¿Y ese Iberra fatal (de quien los santos
se apiaden) que en un puente de la vía,
mató a su hermano el Ñato, que debía
más muertes que él, y así igualó los tantos?
Una mitología de puñales
lentamente se anula en el olvido;
una canción de gesta se ha perdido
en sórdidas noticias policiales.
Hay otra brasa, otra candente rosa
de la ceniza que los guarda enteros;
ahí están los soberbios cuchilleros
y el peso de la daga silenciosa.
Aunque la daga hostil o esa otra daga,
el tiempo, los perdieron en el fango,
hoy, más allá del tiempo y de la aciaga
muerte, esos muertos viven en el tango.
En la música están, en el cordaje
de la terca guitarra trabajosa,
que trama en la milonga venturosa
la fiesta y la inocencia del coraje.
Gira en el hueco la amarilla rueda
de caballos y leones, y oigo el eco
de esos tangos de Arolas y de Greco
que yo he visto bailar en la vereda,
en un instante que hoy emerge aislado,
sin antes ni después, contra el olvido,
y que tiene el sabor de lo perdido,
de lo perdido y lo recuperado.
En los acordes hay antiguas cosas:
el otro patio y la entrevista parra.
(Detrás de las paredes recelosas
el Sur guarda un puñal y una guitarra.)
Esa ráfaga, el tango, esa diablura,
los atareados años desafía;
hecho de polvo y tiempo, el hombre dura
menos que la liviana melodía,
que sólo es tiempo. El tango crea un turbio
pasado irreal que de algún modo es cierto,
un recuerdo imposible de haber muerto
peleando, en una esquina del suburbio.
IL TANGO
Dove saranno? Chiede l’elegia
di quelli che oramai non sono più,
come esistesse un luogo dove l’Ieri
possa esser l’Oggi, l’esser Ancora, il Sempre.
Dove sarà (ripeto) la teppaglia
che in polverosi vicoli sterrati
o in perduti villaggi istituì
la setta del coltello e del coraggio?
Dove saranno quelli che passarono
lasciando all’epopea un episodio,
una favola al tempo, e si affrontarono
al coltello, senz’odio o ardore o lucro?
Nella leggenda li cerco, nell’ultima
brace che serba, come vaga rosa,
qualcosa dell’intrepida canaglia
che stava a Balvanera o ai Corrales.
Quale deserto, quali oscuri vicoli
dell’altro mondo abiterà la dura
ombra di chi era già un’ombra oscura,
di Muraña, coltello di Palermo?
E quel fatale Iberra (i santi ne abbiano
pietà) che su di un ponte uccise il Ñato,
suo fratello, che morti ne doveva
più di lui, e così furono pari?
Una mitologia di pugnali
lentamente si annulla nell’oblio;
una canzone di gesta è andata persa
in sordide notizie poliziesche.
C’è un’altra brace, un’altra ardente rosa
di quella cenere che li conserva;
lì sta la gente altera del coltello,
lì il peso della daga silenziosa.
Benché la daga ostile o l’altra daga,
il tempo, li dissolsero nel fango,
oggi, al di là del tempo e dell’infausta
morte, quei morti vivono nel tango.
Vivono nelle corde e nella musica
della tenace chitarra operosa
che concerta in milonghe fortunate
la festa e l’innocenza del coraggio.
Gira la gialla ruota della giostra
di cavalli e leoni e mi raggiunge
l’eco dei tanghi di Greco e di Arolas
che vidi un tempo danzare per strada,
in un istante che affiora isolato,
senza prima né poi, contro l’oblio,
e ha il sapore di quel che abbiamo perso,
che abbiamo perso e a un tratto ritrovato.
Vi sono cose antiche in quegli accordi,
la pergola intravista, l’altro patio.
(Dietro, i suoi muri sospettosi il sud
ha in serbo una chitarra e un pugnale).
Quest’incantesimo, questa ventata,
il tango, sfida gli anni affaccendati;
di polvere e di tempo, l’uomo dura
meno della leggera melodia,
che è solo tempo. Il tango crea un torbido
passato ch’è irreale e in parte vero,
un assurdo ricordo d’esser morto
in duello, a un cantone del sobborgo.
(da Tutte le opere, Mondadori, 1986)
EUGENIO MONTALE
(Da Diario del ‘71 e del ‘72 – Mondadori, 1973)
LA DANZATRICE STANCA
Torna a fiorir la rosa
che pur dianzi languia…
dianzi? Vuol dire dapprima, poco fa.
e quando mai può dirsi per stagioni
che s’incastrano l’una nell’altra, amorfe?
ma si parla della rifioritura
d’una convalescente, di una guancia
meno pallente ove non sia muffito
l’aggettivo, del più vivido accendersi
dell’occhio, anzi del guardo.
È questo il solo fiore che rimane
con qualche merto d’un tuo dulcamara.
A te bastano i piedi sulla bilancia
per misurare i pochi milligrammi
che i già defunti turni stagionali
non seppero sottrarti. Poi potrai
rimettere le ali non più nubecola
celeste ma terrestre e non è detto
che il cielo se ne accorga. Basta che uno
stupisca che il tuo fiore si rincarna
si meraviglia. Non è di tutti i giorni
in questi nivei défilés di morte.
UGO FOSCOLO
(1802)
Dall’ode ALL’AMICA RISANATA (vv.19-48)
[…]
Le Ore che dianzi meste
Ministre eran de’ farmachi,
Oggi l’indica veste,
E i monili cui gemmano
Effigïati Dei
Inclito studio di scalpelli achei
E i candidi coturni
E gli amuleti recano
Onde a’ cori notturni
Te, Dea, mirando obbliano
I garzoni le danze,
e principio d’affanni e di speranze
O quando l’arpa adorni
E co’ novelli numeri
E co’ molli contorni
Delle forme che facile
Bisso seconda, e intanto
Fra il basso sospirar vola il tuo canto
Più periglioso; o quando
Balli disegni, e l’agile
Corpo all’aure fidando,
Ignoti vezzi sfuggono
Dai manti, e dal negletto
Velo scomposto sul sommosso petto
All’agitarti, lente
Cascan le trecce, nitide
Per ambrosia recente,
Mal fide all’aureo pettine
E alla rosea ghirlanda
Che or con l’alma salute April ti manda.
[…]