POESIA A CONFRONTO – La notte

POESIA A CONFRONTO - La notte

 
 
 
 

POESIA A CONFRONTO – La notte
LEOPARDI, D’ANNUNZIO, CAMPANA, DE ANGELIS

 
 
 
 

La notte è uno dei temi classici della poesia, fin dall’età classica: l’uomo è sempre stato affascinato profondamente, e spesso anche inquietato, dal buio della notte in cui si condensano tutta una serie di retaggi ancestrali, di interrogativi, di moti interiori che costituiscono appunto la materia viva da cui nasce la poesia.

Partiamo da un grande classico, il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” di Leopardi, testo presente in tutte le antologie scolastiche e pietra miliare della riflessione poetica e filosofica di Leopardi. Tutta la scena notturna è dominata dalla luna, tanto cara a Leopardi che concepisce questo incipit memorabile e spiazzante, luna con cui il pastore tenta un dialogo per comprendere le ragioni di un’esistenza che appare priva di senso, tutta all’insegna del dolore fin dall’atto della nascita, esistenza incomprensibile nella logica ineluttabile “del tacito, infinito andar del tempo”; nella inalienabile consapevolezza che accomuna tutte le specie viventi, anche “la greggia” solo in apparenza serena e immune al giogo del “tedio” e della sofferenza. Senza esclusione, per tutti, “è funesto a chi nasce il dí natale”.

Di D’Annunzio proponiamo una poesia giovanile anch’essa con protagonista la luna, in un’atmosfera di silenzio e mistero, che avvolge tutto il paesaggio; è l’elemento del sogno (“messe di sogni “) che qui la fa da padrone, unito a una sensualità delicata a cui si accenna nella strofa finale, con l’immagine dei piaceri che la notte riserva agli uomini. Il tono è quello di un “mite chiarore” in cui la notte appena si schiarisce, in cui “ondeggia” sotto la falce della luna.

Campana, cimentandosi nel genere della prosa poetica che pochi precedenti aveva nella letteratura italiana, ma poteva attingere a modelli importanti come Baudelaire e Rimbaud in primis, ci presenta una poesia in prosa dalla scrittura immaginifica e sognante, a tratti surreale, in cui realtà e mito si confondono e intersecano: la notte qui ha una lucidità visionaria, assistiamo al superamento di ogni confine spazio-temporale predefinito per istituire associazioni sensoriali dalla potenza vigorosa e intrigante, con un linguaggio ricco di sollecitazioni misteriose, di varchi irrisolti.

Infine, Milo De Angelis ci porta “sull’orlo della notte”, che diventa la soglia in cui il tempo si sospende e richiama a raccolta tutti gli “attimi” del vissuto, a partire appunto “dal primo sangue”, pur nella inevitabilità di un “giorno mai compiuto”. L’uomo si trova spiazzato, sorpreso in questo stato dubbioso e rivelatore, che lo spinge a interrogare l’esistenza, consapevole di non poterne svelare la ragione, certo che l’approdo inevitabile è accettare la propria consapevole imperfezione, rimanere così “dentro un solo respiro”.

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
GIACOMO LEOPARDI
(Da Canti – Saverio Starita, 1835)
 
CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA
 
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
 
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
 
Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
 
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
 
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir della terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
— A che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono? —
Così meco ragiono: e della stanza
 
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre lá donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.
 
O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente; ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
 
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
— Dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
 
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.
 
 
 
 
 
 
GABRIELE D’ANNUNZIO
(Da Canto Novo – Sommaruga, 1882)
 
O falce di luna calante
che brilli sull’acque deserte,
o falce d’argento, qual messe di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!
 
Aneliti brevi di foglie,
sospiri di fiori dal bosco
esalano al mare: non canto non grido
non suono pe ‘l vasto silenzio va.
 
Oppresso d’amor, di piacere,
il popol de’ vivi s’addorme…
O falce calante, qual messe di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!
 
 
 
 
 
 
DINO CAMPANA
(Da Canti Orfici – scritto nel 1913; Tipografia Ravagli, 1914)
 
LA NOTTE

1. Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso.

2. Inconsciamente io levai gli occhi alla torre barbara che dominava il viale lunghissimo dei platani. Sopra il silenzio fatto intenso essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio: mentre per visioni lontane, per sensazioni oscure e violente un altro mito, anch’esso mistico e selvaggio mi ricorreva a tratti alla mente. Laggiù avevano tratto le lunghe vesti mollemente verso lo splendore vago della porta le passeggiatrici, le antiche: la campagna intorpidiva allora nella rete dei canali: fanciulle dalle acconciature agili, dai profili di medaglia, sparivano a tratti sui carrettini dietro gli svolti verdi. Un tocco di campana argentino e dolce di lontananza: la Sera: nella chiesetta solitaria, all’ombra delle modeste navate, io stringevo Lei, dalle carni rosee e dagli accesi occhi fuggitivi: anni ed anni ed anni fondevano nella dolcezza trionfale del ricordo.

9. Venne la notte e fu compita la conquista dell’ancella. Il suo corpo ambrato la sua bocca vorace i suoi ispidi neri capelli a tratti la rivelazione dei suoi occhi atterriti di voluttà intricarono una fantastica vicenda. Mentre più dolce, già presso a spegnersi ancora regnava nella lontananza il ricordo di Lei, la matrona suadente, la regina ancora ne la sua linea classica tra le sue grandi sorelle del ricordo: poi che Michelangiolo aveva ripiegato sulle sue ginocchia stanche di cammino colei che piega, che piega e non posa, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano, e lo sbattere delle pose arcane e violente delle barbare travolte regine antiche aveva udito Dante spegnersi nel grido di Francesca là sulle rive dei fiumi che stanchi di guerra mettono foce, nel mentre sulle loro rive si ricrea la pena eterna dell’amore. E l’ancella, l’ingenua Maddalena dai capelli ispidi e dagli occhi brillanti chiedeva in sussulti dal suo corpo sterile e dorato, crudo e selvaggio, dolcemente chiuso nell’umiltà del suo mistero. La lunga notte piena degli inganni delle varie immagini.

15. Ma quale incubo gravava ancora su tutta la mia giovinezza? O i baci i baci vani della fanciulla che lavava, lavava e cantava nella neve delle bianche Alpi! (le lagrime salirono ai miei occhi al ricordo). Riudivo il torrente ancora lontano: crosciava bagnando antiche città desolate, lunghe vie silenziose, deserte come dopo un saccheggio. Un calore dorato nell’ombra della stanza presente, una chioma profusa, un corpo rantolante procubo nella notte mistica dell’antico animale umano. Dormiva l’ancella dimentica nei suoi sogni oscuri: come un’icona bizantina, come un mito arabesco imbiancava in fondo il pallore incerto della tenda.

 
 
 
 
 
 
MILO DE ANGELIS
(Da Quell’andarsene nel buio dei cortili – Mondadori, 2010)
 
A volte, sull’orlo della notte, si rimane sospesi
e non si muore. Si rimane dentro un solo respiro,
a lungo, nel giorno mai compiuto, si vede
la porta spalancata da un grido. La mano feriva
con una precisione vicina alla dolcezza. Così
si trascorre dal primo sangue fino a qui,
fino agli attimi che tornano a capire e restano
imperfetti e interrogati.