POESIA A CONFRONTO – Fine Impero

POESIA A CONFRONTO – Fine Impero

 
 

POESIA A CONFRONTO – Fine Impero
MANZONI, SHELLEY, SMITH, VERLAINE, KAVAFIS

 
 

Il sogno imperiale ha da sempre affascinato l’uomo nel corso dei secoli. L’impero è generalmente riferito a una autorità il cui potere viene esercitato, in forme spesso diverse, su un gruppo di popoli e territori caratterizzati dalla multiculturalità e dalla multietnicità. “L’impero è inoltre in genere caratterizzato da un’ideologia imperiale […] spesso connotata di caratteri di egemonismo ed universalità, sulla base della quale si modellano i meccanismi di controllo politico, sociale, religioso ed economico del gruppo dominante sui gruppi dominati.” (Wikipedia) È quindi chiaro che il declino e la successiva fine di un impero hanno sempre caratteri epocali, segnano la transizione fra equilibri culturali, sociali e geopolitici che vengono fortemente modificati, se non sconvolti. A questo tema, inteso nel senso storico e nel senso simbolico e metaforico, è dedicato il confronto di oggi.

Nella celebre ode manzoniana la celebrazione della vita di Napoleone Bonaparte, in concomitanza con la sua scomparsa il 5 Maggio 1821, è l’occasione per una riflessione storica di più ampio respiro sui grandi della storia, nella consapevolezza che solo i posteri potranno esprimere un giudizio più obiettivo (“Fu vera gloria? Ai posteri / l’ardua sentenza”: versi diventati proverbiali) e che ogni gloria è comunque destinata a perdere di importanza nella prospettiva ultraterrena del credente (“Dov’è silenzio e tenebre / la gloria che passò”). Napoleone diventa nell’ode manzoniana interprete di un passaggio storico cruciale (“due secoli, / l’un contro l’altro armato”), ma alla gloria delle imprese individuali, alla creazione dell’impero, si contrappone la coscienza che c’è una volontà divina, imperscrutabile che agisce sulla storia (“Il Dio che atterra e suscita, / che affanna e che consola”) e che sa offrire pace e consolazione alle anime grandi.

Di un impero ancora più antico, quello di Ramses II, detto Ozymandias, celebre faraone d’Egitto, ci parla Shelley: nella sua poesia il senso di un declino ineluttabile che riguarda tutte le imprese dell’uomo trova un traslato nella scultura gigantesca di Ozymandias, ormai in rovina e dimenticata nella sabbia del deserto. La figura di Ozymandias resta tuttavia altera nella espressione corrucciata e di sfida che ancora emana dalla sua statua in rovina e assurge a monito per l’uomo contemporaneo. Sembra quasi che sia il faraone a prendere la parola tramite l’iscrizione che riporta: “My name is Ozymandias, king of kings: / Look on my works, ye Mighty, and despair!”, richiamo minaccioso alle smanie di grandezza dell’uomo moderno, votate comunque al nulla.

La poesia di Shelley nasce anche come “sfida letteraria” con il suo amico Horace Smith a partire da un riferimento comune riconducibile a Diodoro Siculo. Anche Smith si cimenta nel suo sonetto sullo stesso tema: l’interessante variante proposta da Smith immagina un futuro lontano in cui sarà Londra a essere ridotta a landa desolata dove sarà un uomo del futuro (un cacciatore), rinvenendo le nostre rovine colossali, a chiedersi notizia della nostra civiltà contemporanea, a interrogarsi sulla sua scomparsa.

Nella poesia di Verlaine il declino dell’impero romano, nell’epoca delle invasioni barbariche, diventa traslato e simbolo per rappresentare la decadenza come stato d’animo di riferimento per l’uomo della fine del XIX secolo (non a caso per la letteratura di questo periodo storico comunemente si fa riferimento alla denominazione di decadentismo). La poesia è il ritratto di un’umanità indolente, dove anche la letteratura langue nella ripetizione di sé stessa, un’umanità incapace di qualunque atto di valore o di coraggio, afflitta da una noia (“ennui”) senza appello e senza redenzione.

Di barbari, attesi con trepidazione, ci parla anche Kavafis: tutto è pronto per questo accadimento eccezionale che saprà finalmente dare senso alle vite, dare una “soluzione” che sembra essere l’unica possibile. Questa attesa sottolineata dalla ripetizione quasi ossessiva della clausola: “Arrivano i barbari” viene però smentita dalla chiusa. “i barbari non vengono più”, anche loro scomparsi, incapaci di cambiare un corso inamovibile. Tutto oscilla in un’atmosfera surreale che anticipa quanto verrà scritto, in altri tempi e con altre prospettive e intenti, ad esempio, da Godot e da Buzzati.

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
ALESSANDRO MANZONI
(1821)
 
IL CINQUE MAGGIO
 
Ei fu. Siccome immobile,
Dato il mortal sospiro,
Stette la spoglia immemore
Orba di tanto spiro,
Così percossa, attonita
La terra al nunzio sta,
 
Muta pensando all’ultima
Ora dell’uom fatale;
Né sa quando una simile
Orma di piè mortale
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
Vide il mio genio e tacque;
Quando, con vece assidua,
Cadde, risorse e giacque,
Di mille voci al sonito
Mista la sua non ha:
 
Vergin di servo encomio
E di codardo oltraggio,
Sorge or commosso al subito
Sparir di tanto raggio:
E scioglie all’urna un cantico
Che forse non morrà.
 
Dall’Alpi alle Piramidi,
Dal Manzanarre al Reno,
Di quel securo il fulmine
Tenea dietro al baleno;
Scoppiò da Scilla al Tanai,
Dall’uno all’altro mar.
 
Fu vera gloria? Ai posteri
L’ardua sentenza: nui
Chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
Del creator suo spirito
Più vasta orma stampar.
 
La procellosa e trepida
Gioia d’un gran disegno,
L’ansia d’un cor che indocile
Serve, pensando al regno;
E il giunge, e tiene un premio
Ch’era follia sperar;
 
Tutto ei provò: la gloria
Maggior dopo il periglio,
La fuga e la vittoria,
La reggia e il tristo esiglio:
Due volte nella polvere,
Due volte sull’altar.
 
Ei si nomò: due secoli,
L’un contro l’altro armato,
Sommessi a lui si volsero,
Come aspettando il fato;
Ei fe’ silenzio, ed arbitro
S’assise in mezzo a lor.
 
E sparve, e i dì nell’ozio
Chiuse in sì breve sponda,
Segno d’immensa invidia
E di pietà profonda,
D’inestinguibil odio
E d’indomato amor.
 
Come sul capo al naufrago
L’onda s’avvolve e pesa,
L’onda su cui del misero,
Alta pur dianzi e tesa,
Scorrea la vista a scernere
Prode remote invan;
 
Tal su quell’alma il cumulo
Delle memorie scese!
Oh quante volte ai posteri
Narrar se stesso imprese,
E sull’eterne pagine
Cadde la stanca man!
 
Oh quante volte, al tacito
Morir d’un giorno inerte,
Chinati i rai fulminei,
Le braccia al sen conserte,
Stette, e dei dì che furono
L’assalse il sovvenir!
 
E ripensò le mobili
Tende, e i percossi valli,
E il lampo de’ manipoli,
E l’onda dei cavalli,
E il concitato imperio,
E il celere ubbidir.
 
Ahi! forse a tanto strazio
Cadde lo spirto anelo,
E disperò: ma valida
Venne una man dal cielo,
E in più spirabil aere
Pietosa il trasportò;
 
E l’avviò, pei floridi
Sentier della speranza,
Ai campi eterni, al premio
Che i desidéri avanza,
Dov’è silenzio e tenebre
La gloria che passò.
 
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
Chè più superba altezza
Al disonor del Golgota
Giammai non si chinò.
 
Tu dalle stanche ceneri
Sperdi ogni ria parola:
Il Dio che atterra e suscita,
Che affanna e che consola,
Sulla deserta coltrice
Accanto a lui posò.
 
 
 
 
 
 
PERCY BISSHE SHELLEY
(Dalla rivista letteraria “Examiner” – 1818)
 
OZYMANDIAS
 
I met a traveller from an antique land
Who said: Two vast and trunkless legs of stone
Stand in the desert. Near them on the sand,
Half sunk, a shatter’d visage lies, whose frown
And wrinkled lip and sneer of cold command
Tell that its sculptor well those passions read
Which yet survive, stamp’d on these lifeless things,
The hand that mock’d them and the heart that fed.
And on the pedestal these words appear:
“My name is Ozymandias, king of kings:
Look on my works, ye Mighty, and despair!”
Nothing beside remains. Round the decay
Of that colossal wreck, boundless and bare,
The lone and level sands stretch far away.
 
 
 
 
OZYMANDIAS
 
Incontrai un viandante di una terra antica
che mi disse: Due immense gambe di pietra, senza tronco,
giacciono nel deserto. Vicino a loro, sulla sabbia,
giace mezzo sepolto un volto scheggiato, le cui labbra
corrucciate e rugose e un freddo sogghigno di comando
dicono che lo scultore comprese bene quelle passioni
che ancora durano, stampate su questi resti senza vita,
nella mano che le sfidò e nel cuore che le nutrì.
E sul piedistallo ci leggono queste parole:
“Il mio nome è Ozymandias, re dei re:
ammirate le mie macerie, voi potenti, e disperate!”
Nient’altro resta. Attorno alla rovina
di quel relitto colossale, nuda e sconfinata,
la sabbia piatta e desolata si stende senza limiti.
 
(traduzione di Fabrizio Bregoli)
 
 
 
 
 
 
HORACE SMITH
(Dalla rivista letteraria “Examiner” –1818)
 
OZYMANDIAS
 
On A Stupendous Leg of Granite, Discovered Standing by Itself in the Deserts of Egypt, with the Inscription Inserted Below”
 
«In Egypt’s sandy silence, all alone,
Stands a gigantic Leg, which far off throws
The only shadow that the Desert knows:
“I am great OZYMANDIAS,” saith the stone,
“The King of Kings; this mighty City shows
“The wonders of my hand.” The City’s gone,
Nought but the Leg remaining to disclose
The site of this forgotten Babylon.
We wonder, and some Hunter may express
Wonder like ours, when thro’ the wilderness
Where London stood, holding the Wolf in chace,
He meets some fragments huge, and stops to guess
What powerful but unrecorded race
Once dwelt in that annihilated place.»
 
 
 
 
OZYMANDIAS
 
Su una stupenda gamba in granito, scoperta tutta sola nel deserto d’Egitto, con l’iscrizione riportata sotto
 
«Nel silenzio delle sabbie d’Egitto, tutta sola,
giace una gamba gigantesca, che scaglia lontano
la sola ombra che il deserto conosce:
“Sono il grande Ozymandias” dice la pietra,
“il Re dei Re; questa splendida città mostra
le meraviglie della mia mano”. La città è scomparsa,
nulla tranne questa gamba rimane a svelare
il luogo di questa Babilonia dimenticata.
Questo ci domandiamo, e un giorno un cacciatore qualunque
potrebbe meravigliarsi come noi, quando braccando il lupo
nella landa desolata che un tempo fu Londra,
trovando qualche rovina imponente si fermerà a chiedersi
quale stirpe potente ma cancellata dalla memoria
un tempo dimorò in quel luogo ora ridotto in polvere.
 
(traduzione di Fabrizio Bregoli)
 
 
 
 
 
 
PAUL VERLAINE
(Da Cartoline dai morti (2007-2017) – Nottetempo, 2017)
 
LANGUEUR
 
Je suis l’Empire à la fin de la décadence,
Qui regarde passer les grands Barbares blancs
En composant des acrostiches indolents
D’un style d’or où la langueur du soleil danse.
 
L’âme seulette a mal au coeur d’un ennui dense.
Là-bas on dit qu’il est de longs combats sanglants.
O n’y pouvoir, étant si faible aux voeux si lents,
O n’y vouloir fleurir un peu cette existence !
 
O n’y vouloir, ô n’y pouvoir mourir un peu !
Ah ! tout est bu ! Bathylle, as-tu fini de rire ?
Ah ! tout est bu, tout est mangé ! Plus rien à dire!
 
Seul, un poème un peu niais qu’on jette au feu,
Seul, un esclave un peu coureur qui vous néglige,
Seul, un ennui d’on ne sait quoi qui vous afflige!
 
 
 
 
LANGUORE
 
Sono l’impero alla fine della decadenza
che guarda passare i grandi Barbari bianchi
mentre compone acrostici indolenti
nello stile d’oro in cui danza il languore del sole.
 
L’anima solitaria ha il cuore a pezzi, una noia implacabile.
Laggiù si dice che vi siano lunghi combattimenti sanguinari,
Oh non potere, così fiacchi nelle nostre volontà stremate,
Oh non sapere far rifiorire un po’ di questa esistenza!
 
Oh non volere, oh non potere morire almeno un po’!
Ah, tutto già bevuto! Batillo, hai finito di ridere?
Ah, tutto già bevuto, tutto già mangiato! Più nulla da dire!
 
Soltanto, una poesia un po’ insulsa da buttare nel fuoco,
soltanto, uno schiavo un po’distratto che vi trascura,
soltanto, una noia che vi affligge, e non si sa di cosa!
 
(traduzione di Fabrizio Bregoli)
 
 
 
 
 
 
KONSTANTINOS KAVAFIS
(1904)
 
ASPETTANDO I BARBARI
 
Che aspettiamo, raccolti nella piazza?
Oggi arrivano i barbari.
Perché mai tanta inerzia no Senato?
E perché i senatori siedono e non fan leggi?
Oggi arrivano i barbari.
Che leggi devon fare i senatori?
Quando verranno le faranno i barbari.
Perché l’imperatore s’è levato
così per tempo e sta, solenne, in trono,
alla porta maggiore, incoronato?
Oggi arrivano i barbari
L’imperatore aspetta di ricevere
il loro capo. E anzi ha già disposto
l’offerta d’una pergamena. E là
gli ha scritto molti titoli ed epiteti.
Perché i nostri due consoli e i pretori
sono usciti stamani in toga rossa?
Perché i bracciali con tante ametiste,
gli anelli con gli splendidi smeraldi luccicanti?
Perché brandire le preziose mazze
coi bei ceselli tutti d’oro e argento?
Oggi arrivano i barbari,
e questa roba fa impressione ai barbari.
Perché i valenti oratori non vengono
a snocciolare i loro discorsi, come sempre?
Oggi arrivano i barbari:
sdegnano la retorica e le arringhe.
Perché d’un tratto questo smarrimento
ansioso? (I volti come si son fatti seri)
Perché rapidamente le strade e piazze
si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi?
S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti.
Taluni sono giunti dai confini,
han detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente.
 
(Tratto da Poesie, Oscar Mondadori editori, Milano, 1961. A cura di Filippo Maria Pontani)