POESIA A CONFRONTO: Dialetti

POESIA A CONFRONTO: Dialetti

foto di Dino Ignani

 
 

POESIA A CONFRONTO: Dialetti
PORTA, BELLI, MARIN, LOI

 
 

La poesia dialettale, per un paese come l’Italia che vanta numerose varianti locali anche fra comuni vicini, rappresenta un grande valore, grazie alla presenza di autori di grande profilo e originalità che danno un contributo fondamentale alla letteratura nazionale, pur non scrivendo in lingua.

Partiamo dai classici del genere: il milanese Porta e il romano Belli. La loro poesia, come nei due esempi riportati, ritrae spesso personaggi tratti dalla vita reale, come avviene per Carlo Milanes e per er Cardinale, che sono rappresentati in versi con un tratto realistico e provocatorio, per mettere in risalto difetti, contraddizioni, ipocrisie, compromessi che la vita quotidiana comporta. L’ironia, tipica della tradizione comico-realistica, è il tratto comune ai due testi che, dal punto di vista formale, rispettano le forme chiuse della tradizione: in entrambi i casi si tratta di perfetti sonetti in endecasillabi, con osservanza rigorosa del metro e delle rime.

Nel corso del Novecento la poesia neodialettale riscrive le regole del genere e porta a concepire la poesia in dialetto come forma espressiva capace di trattare qualunque tipo di tema, senza adagiarsi esclusivamente fino ad appiattirsi sulla facilità e l’immediatezza della tradizione vernacolare. Fra i maestri degli ultimi anni non possiamo non annoverare il veneto Biagio Marin e il milanese Franco Loi (in un milanese tutto suo, fortemente ibridato).

A dimostrazione di quanto detto sulla poesia neodialettale, il testo di Marin tratta il tema del cielo stellato (caro molto anche a Ungaretti, ad esempio) con una profondità, un controllo dello stile e uno scavo in profondità, alle radici, che rendono la poesia presentata, fondamentalmente lirica, attraversata da una sensibilità che è propria della poesia più intimistica e esistenziale, quella che argomenta sulle ragioni dell’uomo e del suo essere nel mondo.

In questo senso la poesia di Marin ha molti punti di convergenza con il testo scelto di Franco Loi: anche qui si ha la consapevolezza sulla pochezza, sulla quasi nullità, dell’uomo che, soggetto alla dittatura del tempo, vede scomparire i propri giorni, svanire i ricordi di una vita, fino a non avere più niente a cui fare appello. La poesia di Loi si colora anche di immagini particolari (come quella dello sbuffo d’aria, del tuono che chiama da lontano) che amplificano la sua componente discorsiva, colorandola e rendendola icasticamente più efficace, con la grazia ruvida che è tipica del dialetto.

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
CARLO PORTA
(XIX secolo)
 
Sissignor, sur Marches, lu l’è marches,
marchesazz, marcheson, marchesonon,
e mì sont el sur Carlo Milanes,
e bott lì! senza nanch on strasc d’on Don.
 
Lu el ven luster e bell e el cress de pes
grattandes con sò comod i mincion,
e mì, magher e biott, per famma sti spes
boeugna che menna tutt el dì el fetton.
 
Lu senza savè scriv né savè legg
e senza, direv squas, savè descor
el god salamelecch, carezz, cortegg;
 
e mì (destinon porch!), col mè stà su
sui palpee tutt el dì, gh’hoo nanch l’onor
d’on salud d’on asnon come l’è lu.
 

(Da Poesie di Carlo Porta; a cura di Dante Isella; collezione: I meridiani; A. Mondadori Editore; Milano, 1975)

 
 
 
 
 
 
GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI
(1832)
 
ER CARDINALE DE PASTO
 
Cristo, che ddivorà! Ccome ssciroppa
quer Cardinale mio, Dio l’abbi in pasce!
E la bbumba? Cojjoni si jje piasce!
Come ssciúria, per dio! come galoppa!
 
Quello? è ccorpo da fà bbarba de stoppa
a un zei conventi: ché ssaría capasce
de maggnajjese er forno, la fornasce,
er zacco, er mulo, e ’r mulinaro in groppa.
 
Lui se sfonna tre llibbre de merluzzo,
quann’è vviggijja, a ccolazzione sola:
capite si cche stommichi de struzzo?
 
Oh a lui davero er don de l’appitito
lo sarva dar peccato de la gola,
perché appena ha mmaggnato ha ggià smartito.
 
 

(da Tutti i sonetti romaneschi di G. G. Belli; a cura di Marcello Teodonio; edizione integrale; collezione: I mammut; edizione: Grandi tascabili economici Newton; Roma, 1998)

 
 
 
 
 
 
BIAGIO MARIN
(da Poesie, Garzanti, 1981)
 
CIELO STELAO
 
Sielo stelao
sito, solene
che vol le pene
del zorno tribolao.
Calda parola
che ne conforta
che in alto porta
la creatura più sola.
Stele che no ha fin
e ne insegna el respiro
de sto mondo divin
arioso in giro.
E quel splendor mortal
ne mantien e alimenta;
qua zo la vita stenta,
ogni ora xe mortal.
 
 

Cielo stellato, / silenzioso, solenne, / che vuole le pene / del giorno pieno di triboli. / Calda parola / che ci conforta, / che in alto porta / la creatura più sola. / Stelle infinite, / e ci insegnano il respiro / di questo mondo divino / arioso in giro. / Quello splendore mortale / ci mantiene e alimenta; / quaggiù la vita stenta: / ogni ora è mortale.

 
 
 
 
 
 
FRANCO LOI
(da Liber, Garzanti, 1988)
 
Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient,
forsi memoria sèm, un buff de l’aria,
umbría di òmm che passa, i noster gent,
forsi ‘l record d’una quaj vita spersa,
un tron che de luntan el ghe reciàma,
la furma che sarà d’un’altra gent…
Ma cume fèm pietâ, quanta cicoria,
e quanta vita se porta el vent!
Andèm sensa savè, cantand i gloria,
e a nüm de quèl che serum resta nient.
 
 
 
 
Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente,
forse memoria siamo, un soffio d’aria,
ombra degli uomini che passano, i nostri parenti,
forse il ricordo d’una qualche vita perduta,
un tuono che da lontano ci richiama,
la forma che sarà di altra progenie…
Ma come facciamo pietà, quanto dolore,
e quanta vita se la porta il vento!
Andiamo senza sapere, cantando gli inni,
e a noi di ciò che eravamo non è rimasto niente.