POESIA A CONFRONTO: Autoritratti

Dario Bellezza (Italia) - ita/espa

 
 

POESIA A CONFRONTO: Autoritratti
ALFIERI, FOSCOLO, MANZONI, LEOPARDI, BELLEZZA

 
 

Il genere dell’autoritratto dell’artista, del poeta in particolare, si afferma con significativo successo nella nuova temperie romantica, in cui il culto della personalità, dell’individualismo e, in ultima istanza, la costruzione di una immagine “eroica” di sé trovano terreno fertile nel nuovo modello di cultura e società in cui l’iniziativa privata, il modello di mercato libero, le libertà di opinione e pensiero mutuate dall’illuminismo incominciano a prendere terreno.

Con evidenti parallelismi si cimentano in questo genere tre tra i maggiori autori del primo Ottocento, Alfieri, Foscolo, Manzoni, a vario titolo indicati dalla critica come protoromantici, preromantici, romantici a seconda delle sfumature interpretative. Tutti e tre gli autori scelgono la forma chiusa del sonetto, impiegano evidenti citazioni petrarchesche combinate con un linguaggio più contemporaneo, strutturano il sonetto in due parti, usando le quartine per descrivere le caratteristiche fisiche delle proprie persone e le terzine per riassumere i tratti fondamentale della propria personalità. In tutti e tre i sonetti emerge l’immagine di personalità conflittuali in una continua tensione fra passione e ragione, (“la mente e il cor meco in perpetua lite”, “do lode / alla ragion, ma corro ove al cor piace”, “All’ira presto, e più presto al perdono”), guerra interiore tipica dell’eroe romantico. Mentre Alfieri e Foscolo affidano alla morte il compito di dire l’ultima sul loro valore (“Muori e il saprai”, “Morte sol mi darà fama e riposo”), in Manzoni si dà questo compito a “gli uomini e gli anni” pur ribadendo la sostanziale inconoscibilità dello spirito umano nelle sue ragioni più profonde (“Poco noto ad altrui, poco a me stesso”).

Nella poesia di Leopardi assistiamo a un totale cambio di prospettiva: l’invocazione al proprio cuore, a prendere atto delle sue sconfitte (“Perì l’inganno estremo”, “Amaro e noia / la vita”, “e fango è il mondo”), è di per sé anti-eroica, meno letteraria e più autentica. Viene meno la descrizione di qualunque caratteristica fisica, ciò che conta è la sola interiorità, il suo scacco definitivo. Al sonetto si preferisce un metro più libero con alternanza di settenari ed endecasillabi sciolti, la rima tra i versi è assente o irregolare, la forma è più aperta. L’uso dell’enjambement e il periodare breve genera un ritmo sincopato, a singhiozzo, che dà alla poesia un’impronta estremamente moderna, anticipatrice della poesia che sarà. L’uomo Leopardi si confronta con la sua nullità, viene ribadita la sua insignificanza rispetto alla Natura, che trama a suo danno, nella “infinita vanità del tutto”.

La centralità dell’io e del ruolo del poeta subisce un forte ridimensionamento a partire dal secondo Novecento fino ai nostri giorni. Non mancano però voci che rivendicano, adattandola al nuovo spirito del tempo, l’imprescindibile riferimento all’io, come nel caso di Dario Bellezza in cui a essere protagonista è un io lirico fortemente connotato tragicamente, con una pulsione di morte e una tendenza all’autoannientamento molto barocca. Lo vediamo nei versi proposti dove a dominare è il tema dell’inconoscibilità dell’io, in una sorta di ritratto non-ritratto in cui l’io viene soggiogato dalla società, dalle convenzioni, fino alla chiusa così enfatica con quel verso isolato posto in grande, smaccata evidenza.

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
VITTORIO ALFIERI
(Da Rime in Opere postume – Piatti, 1804)
 
Sublime specchio di veraci detti,
mostrami in corpo e in anima qual sono:
capelli, or radi in fronte, e rossi pretti;
lunga statura, e capo a terra prono;
  
sottil persona in su due stinchi schietti;
bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono;
giusto naso, bel labro, e denti eletti;
pallido in volto, più che un re sul trono:
  
or duro, acerbo, ora pieghevol, mite;
irato sempre, e non maligno mai;
la mente e il cor meco in perpetua lite:
  
per lo più mesto, e talor lieto assai,
or stimandomi Achille, ed or Tersite:
uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai.
 
 
 
 
 
 
UGO FOSCOLO
(Da Poesie – su “Nuovo giornale dei letterati”, Pisa – 1802)
 
Solcata ho fronte, occhi incavati intenti;
    Crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto;
    Labbro tumido acceso, e tersi denti,
    Capo chino, bel collo, e largo petto;
 
Giuste membra, vestir semplice eletto;
    Ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti,
    Sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;
    Avverso al mondo, avversi a me gli eventi.
 
Talor di lingua, e spesso di man prode;
    Mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,
    Pronto, iracondo, inquieto, tenace:
 
Di vizi ricco e di virtù, do lode
    Alla ragion, ma corro ove al cor piace:
    Morte sol mi darà fama e riposo.
 
 
 
 
 
 
ALESSANDRO MANZONI
(Da Opere varie – Pirotta e Maspero, 1801)
 
AUTORITRATTO
 
Capel bruno, alta fronte, occhio loquace,
     Naso non grande e non soverchio umìle,
     Tonda la gota e di color vivace,
     Stretto labbro e vermiglio, e bocca esìle;
 
Lingua or spedita, or tarda, e non mai vile,
     Che il ver favella apertamente, o tace;
     Giovin d’anni e di senno, non audace,
     Duro di modi, ma di cor gentile.
 
La gloria amo, e le selve, e il biondo Iddio;
     Spregio, non odio mai, m’attristo spesso;
     Buono al buon, buono al tristo, a me sol rio.
 
All’ira presto, e più presto al perdono,
     Poco noto ad altrui, poco a me stesso,
     Gli uomini e gli anni mi diran chi sono.
 
 
 
 
 
 
GIACOMO LEOPARDI
(Da Canti – Saverio Starita, Napoli – 1835)
 
XXVIII
A SE STESSO
 
  Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perí l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perí. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanitá del tutto.
 
 
 
 
 
 
DARIO BELLEZZA
(da Invettive e licenze – Garzanti, 1971)
 
Ma non saprai giammai perché sorrido.
Perché fui il pedante Amleto
della più consolatrice borghesia.
Perché non ho combattuto il Leviatano
Stato che vuole tutto inghiottire
nella macchinosa congerie
della sua burocrazia inesorabile.
 
Ora mi nascono le unghie come ai morti.