Piazzale senza nome – Luigia Sorrentino

Piazzale senza nome, Luigia Sorrentino (Samuele Editore-Pordenonelegge, 2021, collana Gialla Oro).

Un libro dall’umanissimo dolore, si potrebbe immediatamente definire, questo di Luigia Sorrentino, in presentazione a Una Scontrosa Grazia (Trieste, libreria Lovat) sabato 23 aprile e a Cotidie Legere (Brisighella, Chiesa dell’Osservanza) venerdì 24 giugno. Un libro che parla di morte, di morti senza nome, di un piazzale realmente esistente e di respiri che non sono più. Di voci impossibili. Perché la Storia sembra essere una frequenza discontinua di alti e bassi dove gli apici sono i massacri dei conflitti che purtroppo bene conosciamo, e i bassi sono un terribile brusio di fondo di anonimi senza diritto alla vita.

Piazzale senza nome è un libro che parla intensamente di scomparsi. Senza ardire di dare loro un nome si fa poesia in primis nel non dare loro un giudizio ma una voce.

 

Viale Diaz
 
È disteso sulla strada dopo l’incidente. il viso scolpito nella pietra è il suo sguardo. in tasca pochi effetti personali. La tessera della piscina, le mentine, qualche moneta. dalla terrazza della sua stanza un giorno le aveva raccontato dei lampi sul mare nei giorni di pioggia, dell’imbrunire che camminava sugli occhi sfocati dell’isola.
Ora la tua voce ha la struttura del suono.
 
La stanza è un’urna fiorita. Avvolge un ritorno senza confini. Adunata sul petto risuona fra le braccia la corrispondenza armonica del cuore in esilio. Le parole non ci sono. Sono nel silenzio di quella mattina d’agosto, alla fermata dell’autobus. nel voltarsi.
 
 
 
 
aveva oltrepassato
il confine
restituita la voce
all’universo
la sorgente di luce non era più
visibile
era tramontata fra gli alberi
 
la notte bianchissima discesa
fino in fondo, guerriera
 
nel suo sangue la neve
il freddo polare nelle pupille
allagate
perdute per sempre
 
 
 
 
La lotta
 
l’avevano picchiato con calci e pugni
colpi violenti inferti sulla schiena
erano entrati nel bozzolo
della dignità
 
erano venuti a cercare i suoi occhi
inceneriti
l’avevano tenuto fra le braccia
senza risposta
 
odorava di fiori senza più ritorno
 
perduta nell’oceano
la frequenza cardiaca
la voce dell’universo
 
 
 
 
di notte il cortile odorava di pianto
l’attraversarono occhi di cemento e intonaco
scale morenti senza voce
 
– amore mio perché –
 
l’hai segnata con atti di forza
hai spinto la pressione delle dita
fino a un gas pieno di lacrime
 
sulla ruvida sponda degli appestati
avevamo bisogno ancora di mistero
non del mondo atterrito

 

Voce che ritorna come un refrain dolorosissimo che principia l’horror vacui della scomparsa, stridente, di chi ha ancora tanta-troppa strada da percorrere. E per questo l’azzeccatissima epigrafe iniziale:

 

La morte dei vecchi è come un approdare al porto,
ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio.
Plutarco, Fragmenta 205 Sandbach

 

Il naufragio di Luigia Sorrentino è una luce spenta che implora il suo opposto, che lo prega senza appellarsi ad alcuna religiosità che non sia l’amore e il suo bisogno.

 

il dio dei morti autorizza l’amore
soltanto presso i morti
 
lo dissotterra,
amore disperato e sterile
dal naufragio lo difende, in seno
cara luce
tiene il lembo
lascia cadere
una speranza debolissima
si propaga all’umanità intera
 
deperita vittima espiatoria
adorazione terrorizzata
verità della violenza

 

La verità della violenza in Piazzale senza nome è a tutti gli effetti un incontro contraddittorio, aporetico eppure umanissimo:

 

Nel secolo che hai lasciato 1
 
su tutto il giardino neve
dilatata
silenzio armato nelle pupille
neve, tutta nel sangue
narici oltraggiate
bianco e nero
 
l’incedere violento
del battito cardiaco
si chiude su di sé
 
nella luminosa potenza
avviene l’incontro

 

Se è vero che La morte da giovani arriva all’improvviso, carica di violenza. Lo smembramento è totale, è anche vero che nella calma materna / corre tutta la vita. E questo abbraccio materno, questo grembo, percorre l’intera opera come significato resiliente di fronte alla vita e alla morte senza senso. A percorsi a senso unico che altro non potevano essere che spezzati, mutilati di sé stessi.

 

nella potenza della fine
qualche parola arrivava
da un oceano che era in lei
 
ramo secco e selvatico
aveva ceduto la sua forza
all’imperio della morte
al supplizio del sangue
raccolto da mani incredule
 
apre il vuoto fra lei e la madre
 
 
 
 
lasci tutto
abbandoni ogni cosa
tutto dipende da altri
sei un corpo senza capacità
acconsenti
ti fai amputare i piedi
 
eppure sai, lo sai,
l’amore desidera
il perpetuo bene

 

Sentenza definitiva e complessa, l’amore desidera / il perpetuo bene va al di là del suo immediato significato per farsi esortazione e abbraccio a posteriori. Perché tutti i morti restano in tutti i tempi in una morte continua, perpetua, un monito invisibile a cui solo la voce poetica può restituire calore.

In un ritorno della storia di sabiana memoria che intreccia grande Storia a minime occasioni quotidiane, eppure fondanti:

 

la forza che uccide
in un colpo solo
è sommaria, rapidissima
 
occhi azzurri strappati dalle orbite
– vi divoreranno
il coltello posato a due centimetri
dal lago
dal sangue
dalla carne strappata –
 
– vi insultano –
 
la capra geme sul tavolo
la gravità, oscura forma,
la preda
 
 
 
 
tutti mangiarono la capra
sgozzata, anche il più giovane
 
estenuante saliva una musica percussoria
una musica che solo l’universo sopporta
 
sangue eccitato dalla persecuzione
sangue scaricato nella malattia
dai morsi inferti nella carne
oltre o sopra la morte
digrignare di denti
 
febbre precipitata all’orecchio della capra
alla sua testa, nel lago della sera
 
 
 
 
seduti in cerchio bruciavano neve
nella carta stagnola, fiammella
venerata, laccio stretto coi denti
 
morte caduta nelle braccia
crivellate di colpi
presenza terribile nello sterno
 
degrada il terriccio
dietro le scale della villa
comunale, la metamorfosi
nella capra, la sola davvero scelta

 

Il dolore è totale, poi scendeva la tenebra / il silenzio di tutte le parole, eppure l’incontro è ancora possibile, l’impronta ineluttabile della morte può ancora svanire. Il male riempito / pulsava nelle soste del tempo / il suo cuore, l’oceano dichiara la possibilità dell’apertura, della navigazione. Ciò che è bloccato a terra può ancora andare alla deriva di una libertà è che memoria, una memoria fissa che chiama / la libertà dello sparire.

Alessandro Canzian

 
 
 
 

Luigia Sorrentino a Una Scontrosa Grazia
solo la musica, l’altezza di una nota
penetrò il loro volto scarno
la burrasca verticale di ogni creazione
 
all’angolo della strada
attaccata alle narici, era con voi,
nell’azione lenta della persecuzione
vi promettete pupille
 
sbarrata la strada indifferente
 
– vita che non sei più vita –
 
la scimmia schiuma alla bocca
a lei hai venduto il tuo nome
 
 
 
 
 
 
deve andare
mani abbandonate e sole – il polso
non si sente più –
il respiro precipita nel vuoto
la corsa chiude il suo ritorno
 
stringergli la mano
 
nella calma materna
corre tutta la vita
 
 
 
 
 
 
 1
livide le estremità delle dita
richiamate verso il basso
raggrumavano sangue
lo stupore della rosa
intorpidita e muta
il tempo fermo nella sua ora
 
porti sulle spalle il corpo, l’antico
adolescente ha ceduto la bocca
acconsente, non dice più nulla
nel dolore totale
 
 
 
 
 
 
l’amore sgrana una sillaba
parla, l’orecchio puro lo riceve
fluido, si insinua nel costato
spietato
contrae
la potente forza
 
primo e antico amore
spinto nella gravità
chiede di pregare
 
la finestra della sua cella
guarda verso il basso,
la luce valorosa non lo tocca
 
 
 
 
 
 
a ondate la tregua cresceva nel mezzo
nel luogo della morte
per amore –
eri tornata – a una bocca muta
nel buio calmo della strada
dove assestare il colpo finale, l’ultimo
la mente una scheggia di vetro
sanguinante colpita lì dove
 
sei stata in tutto ciò che doveva
accadere
 
il mare scuro alle spalle è il corpo
tremante, una notte scomparsa
 
 
 
 
 
 
qualcosa incrina la sua forza
il posto si svuota
 
– tu sei inutile, non vali niente –
 
la violenza ha la lingua del fuoco
lo scudo sul quale rimbalza
le protegge il volto, chiaro
 
la testa fra l’incudine e il martello
montava rabbia incandescente
 
poi scendeva la tenebra
il silenzio di tutte le parole
 
 
 
 
 
 
risucchiata dall’altissima violenza
lascia la madre
 
l’abbozzo dell’albero
respira nel suo caldo corpo
mormora il sangue
tutto è distanza dal grembo
trepido il morire
sulla fronte
 
la morbidezza che calcavi
si era voltata
verso un lume notturno
 
 
 
 
 
 
ti imponi un ordine, una dieta
vuoi dimagrire il dolore
vuoi separartene
un sospetto
di tenebra
esamina
dissanguando le palpebre
 
percorri la strada
con la voce spazzata via
 
sei entrata dal fondo, sei tornata
in un paese morto