Per distratta sottrazione – Fosca Massucco

massucco

Si può scrivere così. Come si può scrivere, in modo altrettanto? Nella metropoli boschiva di Fosca Massucco, zeppa di sguardo e di passi privi di retorica, il primo radente profili e interni, i secondi ben piantati sul suolo, avanzano carri bestiame con sopra i cassoni animaleschi. Per filogenesi, miracolosamente fuori tempo, però ricca di antropologia fenogliana, la poesia di Per distratta sottrazione addita la realtà della carne che va nel vuoto, con tutta la fine del ’900 messa lì come fosse semplice addentrarsi in questa investitura. Non lo è, l’autrice lo sa, e zappando via ogni ostruzione delle misere facoltà attuali (la spianatura infame delle poetiche), non ci pensa due volte a decretare, ben dentro la struttura del verso, un’epica fin viscerale, domestica e altresì pubblica, un’epica che non si conforma alla fine degli scrittori, quelli che mettevano in chiaro ostilità verso i poteri biblici o riscaldati come brodo politico. Fenoglio, Vittorini qui non sono francobolli commemorativi ma incagliamenti che mirano a far fuori lo sporco corrente. Fuor di caserme e casini di realismo contemporaneo, che va pure bene quando s’intravvede uno straccio di prospettiva, Fosca Massucco denuncia, già nella prima fondante poesia del libro (“Non c’è differenza con il carro bestiame”), il disallineamento dei meccanismi della bilancia, il conseguente suo naufragio venendo meno l’equilibrio strutturale. Non indica, attribuendosi potere o misteri indistinti tali da alzare la voce, ma esegue tagli, passi, stacchi improvvisi, come solo la cinepresa unita al magnetofono sapevano fare in ben diversi tempi. Scrive, e non lo istruisce, che la luce, lux, sta sopra la terra, e gli esseri soprastanti muoiono. Come in un libro di lettura diventa facile capire in che modo lux serva a mostrare l’evento-morte. Nasce qui una prospettiva del verso che non è cupezza, né tattica il cui scopo sia far finta di nulla, anzi si avverte un piazzamento stabile contro la famosa nebbia “iniqua”, stabile nei territori abitati dalla poetessa, lei profonda come un tacco nel fango, o i cespi di rose a capo dei filari d’uva. Ma è sottraendo silenzio al silenzio che si odono i suoni, e tutti i crini dello spazio creato dai versi di Per distratta sottrazione.

Con questo incipit Elio Grasso introduce Per distratta sottrazione di Fosca Massucco (Raffaelli 2015). Non conosco personalmente l’autrice ma se dovessi parlare di lei, basandomi esclusivamente sui suoi versi, direi che è una persona straordinariamente capace del concetto della misura. Che non è controllo, anche se ha in sé intrinseco il controllo. La misura di Fosca Massucco è la capacità di computare il mondo, letteralmente di contarne gli elementi trovando quegli assenti che non sono mai realmente assenti, solo non immediatamente percepibili. Come dall’orma rimasta su un letto si può intuire la presenza umana, pur assente, appunto per sottrazione. Questo è un libro che a me pare abbia la pulita perfezione di uno specchio rotto, dove tutto viene restituito ma con spaccature perfettamente regolari, contenute nello spazio della rottura che è anche area di riflessione dell’immagine.

Il dolore è silenzio del tono puro / per distratta sottrazione. Tale definizione in versi viene data quasi subito nello svolgersi del libro e già in sé dice il bisogno di chiarezza dell’autrice. Nella misura che lei fa del mondo non emergono zone d’ombre, aree fumose, ma bene o male tutto emerge chiaro nella sua complessità. Privo di quello sviante coinvolgimento emotivo che non fa vedere bene. Ancora pensi all’universo capovolto, / dove traspare solo vuoto tra i cipressi / e la cinta delle mura? Il nulla / è immagine di sé e il vuoto / non è vuoto, vacilla in solitudine, che poi si conclude con anche nelle bare il vuoto / è più denso delle ossa. Una poesia quasi per definizioni, ma leggere, mai eccessivamente ingombranti.

Vi è una certezza di fondo, Riconsegno il senso alle cose – / autentica percezione di forma. / La mia ricerca è sempre controluce, / il rospo nella luna, che sa con certo pregio equilibrare la propria presenza privata non obbligando il lettore a confrontarsi con lei, ma anzi coi personaggi che lei racconta. Al mattino stemperarono i monti / e c’eri tu, repentina / come il miracolo di qualcun altro. / Si spuntarono le cime, / disfatti gli orridi e le gole, / tacquero i colori dei fiori. / La densità seccò cruda / come l’infiorescenza che scopre il frutto / in una stagione maldestra. / “Dèstati Deborah e intona un canto. Fino ad arrivare alle condense della terra rivoltata nel loro elencarsi (molto introspettivo) di oggetti che sono componenti del mondo: Occorrono il mulinello il trapano e la canna, / poi una seggiolina, / il silenzio scricchiolante, ghiaccio / che si fora, trucioli di neve – / l’occhio ai guizzi di dicembre.

Ora che ogni voce tace, / quale rifugio darò alle mie parole?. Il silenzio è sicuramente una delle componenti privilegiate di Per distratta sottrazione. Un silenzio che si declina man mano in è inutile, perfetta epifania / quel che solo posso dire, quanto in io che posso fuggire ancora / i rovi e la rabbia, fingermi senza / l’attenzione – la precisione / lasciata a dio, oppure in verso da cormorano del treno / che torna e cambia la stagione. Ma è quella precisione lasciata a dio che a un certo punto compare con l’evidentemente importantissima d minuscola (importantissima per un’autrice che, a conclusione dell’opera, impiega due pagine di note per spiegare riferimenti precisi e colti quali il mese mercedonio, il Locus dicitur praedialis, il giusto quale oggetto metallico che serve per riportare una bilancia a due bracci nel suo equilibrio) che più di tutto evidenzia la necessità di una precisione che in effetti è. È un bisogno di misurazione (la precisione è misurabile) che si scontra col dubbio che non esista tale precisione, senza disperarla, anzi invocandone la necessità (tutta umana, e forse anche per questo quel dio in minuscolo) in quanto rifugio.

Una precisione, una fotografia che renda chiaro lo sguardo (non a caso una delle sezioni si intitola Il dagherrotipo), per un libro che usa una forma molto chiusa, misurata anch’essa, dove ogni elemento nella sua musicalità ha un posto univoco (si legga il bellissimo Rincasa il ragno ballerino – / atto incosciente, / si rassegna alla gloria pervicace) e preciso. Una perfezione formale che ammette anche l’errore, come riflesso della realtà, tanto che se dovessi per concludere definire con due parole questo bel libro di Fosca Massucco citerei nuovamente le parole di Elio Grasso in prefazione ma non nella sua forma corretta, bensì con un piccolo errore, una svista, che a una prima veloce lettura mi è rimasta. Dove infatti si legge La bestia. L’uomo. Ma è un attimo, subito dopo inizia a camminare devo ammettere avevo inteso l’uomo è un attimo. Un attimo che, a conclusione della lettura, nel suo preciso essere un errore, a me pare particolarmente emblematico e onnicomprensivo.

 
 
 
 
 
 
Non c’è differenza con il carro bestiame –
ritorno inanime dal mattatoio,
lo scivolo lieve sull’anello cittadino.
L’aria si sperde tra le camere del cassone
con la compiutezza ineluttabile
del vuoto – smarrisce gli odori nel cammino,
non oscilla al fiato di condensa.

Sono il giusto, ripetevi, getto in mare
cavallo e cavaliere – con bracci d’equilibrio
ondeggio intonando l’eterofono
e accordo l’assoluta inconsistenza.
Per te sono il sentiero –
spazio tra via e banchina,
il compiuto accomodamento
del vilucchio alla tua terra.

D’improvviso domandavi: “Com’è il vuoto
visto da dentro?

 
 
 
 
 
 

La volpe crepò ai piedi del pilone
per guanciale un ciottolino crudo –
quello che il Cristo contemplava
dalla croce sbozzata tutto il dì –
lux perpetua luceat eis, rara
come l’arcobaleno di notte.

 
 
 
 
 
 

Immersa in una tonale di gioia, io trionfo
incessante negli anditi riverberanti dell’anima
come un crine ebbro di pece sulla corda.

Il dolore è silenzio del tono puro
per distratta sottrazione.

 
 
 
 
 
 

Non credo sia l’assurdità
del calicanto – vaniglia
crudele nell’aria di febbraio

neppure la stravagante armata
di pettirossi a capofitto sulla strada
sgombra tra due ali di gragnola

di certo non è il primo croco geofita
che in assolata disgrazia buca
la terra dei miei cammini

sono le finestre del silenzio a creparsi –
il verso da cormorano del treno
che torna e cambia la stagione.

 
 
 
 
 
 

“Il vuoto è quanto rimane quando si è tolto
tutto quello che si poteva togliere”

J. C. Maxwell (1831-1879)

 
Ancora pensi all’universo capovolto,
dove traspare solo vuoto tra i cipressi
e la cinta delle mura? Il nulla
è immagine di sé e il vuoto
non è vuoto, vacilla in solitudine.

Prendi un filare di tralicci,
bazzecola regale quell’effetto corona,
la tensione sfrigola e sconfitto
è il favonio da ponente – il vuoto
è immoto, piantato senza inizio.

Al camposanto il cantiere tra i cipressi
e i tralicci è ala vergine di quiete,
vibra le trivelle, scuote l’aria.
Anche nelle bare il vuoto
è più denso delle ossa.

 
 
 
 
 
 

Ora resto qui
sull’erba appena fresata –
la trincia mescola grovigli e tane
e i butti della ginestra dissestante,
nell’aria artificiale ribollono i sarmenti
e l’odore guasto si lega
alle zampe delle volpicine.

Aspetto sulla collina senza vigna –
vedova di zecche acquattate
nell’umido delle malerbe.

Indugio qui – ventitré i minuti
di rivoluzione della trincia
e l’anima sale così in alto
da suonarsi da sola le campane –
poi compare tra gli sterpi
e ha gran lavoro a ritrovarmi,
miserando citipati di campagna,
derubata dei miei giorni da me sola.