Osicran o dell’Antinarciso – Saverio Bafaro

Attraverso specchi d’acqua, crolli e rinascite, la raccolta di poesie Osicran o dell’Antinarciso (Il Convivio Editore, 2024, collana “Ormeggi”, con lettera introduttiva di Eugenio Borgna) di Saverio Bafaro irradia sentieri venosi di «dispersione» e «ritrovamento», incarnando nel rovesciamento del nome Narciso, evidente e spiazzante sin dal titolo, il ribaltamento della visione egemonica e claustrofobica dell’Io.

«In quante vite ho nuotato
per perdermi e ritrovarmi
in quanti specchi e volti
mi sono riflesso attonito
prima di vivere appieno
nella gloria silenziosa
di una sera del mondo
questa assenza di me»

A partire dal grande enigma del sé in rapporto all’alterità, in «questa epoca divisa / tra massa e persona», un percorso di liberazione dischiude la prospettiva alla pienezza del silenzio. Personificazione dell’Antinarciso, Osicran capovolge la gabbia solipsistica dall’interno, inoltrandosi nel territorio psichico del perturbante freudiano (unheimlich), nella compresenza degli opposti. Trama ambigua di luci e ombre, la specularità accende i temi del doppio e della ripetitività, suscita familiarità ed estraneità, mettendo di fronte al dolore del taglio, alla frammentazione e al desiderio di riconciliazione armonica.

In un fluire poetico immersivo e sovversivo, privo di sezioni ma non di snodi, la profondità dell’inabissamento è metamorfosi, graduale ritorno corporeo alle radici del mistero che ci permea: «ossa», «millenari crocevia di sangue», «mosaico». Una scrittura introspettiva, ricca di suggestioni mitologiche e puntuali riferimenti psicoanalitici, trascina e coinvolge, dalla caduta al «fiore» della «resurrezione», nella rincorsa dell’immagine specchiata, troppo vicina e insieme troppo lontana.

«Dentro la cornice uno specchio / dentro lo specchio un ritratto […] dentro lo stagno una magnifica trasparenza»: come una matrioska votata a un inesausto rimpicciolimento, un viaggio di riscoperta e autoconsapevolezza scava dentro il dentro, ferisce e aderisce fino a farsi «seconda pelle», «incantesimo». L’oscillazione del cuore spazia tra interno ed esterno, individuo e mondo, fondo e superficie, morte e vita. Una continua «ricerca di equilibrio» interroga «il gioco sacro del contenitore e del contenuto», spalancando le finestre del mito sul tempo, sul potere trasformativo dell’arte, sull’inappartenenza.

La riflessione metapoetica non è invero disgiunta da quella esistenziale. La condizione del respiro e il motore dell’attività artistica si delineano in un «gesto circolare» della mano senza possesso, nell’«impermanenza / dell’apparenza». L’atto che tenta invano di afferrare i contorni, di scalfire l’acqua increspata dal vento, abbraccia nel desiderio presenza e assenza: la «vanità del rimanere» e la «rivelazione».

Il filo acquatico che avviluppa «osicraNarciso», lo sguardo e la trasfigurazione del nome sembra avere un richiamo sottile alle parole di Leon Battista Alberti, «usai di dire […] quel Narcisso convertito in fiore essere della pittura stato inventore» (De pictura,1435), senza mai dimenticare la «carne» di un percorso intriso di ricordi, stagioni e affetti. Componenti autobiografiche, mito e contemporaneità («Il fiore scoperto dalle ninfe […] è ora venduto nei supermercati») si alimentano e compenetrano nella tensione a una connessione umana più elevata, dando linfa a un patrimonio condiviso di apparizioni e scomparse.

Dove «caduta e risalita sono / la stessa luce emersa», illusione, crisi e precipizio divengono soglie e passaggi di un cammino iniziatico, la prova del fuoco per «ridimensionare Io» e rinascere. La lama dell’immagine riporta all’origine, al sangue che attraversa le generazioni, al corpo.

«Premendo mi dici di esserci
specchio conficcato nel fianco
così da dentro riesco a sentirti
corpo pieno di contenuti
e dispositivi di immagini
desiderose di esser viste
nelle ossa, nei muscoli, nelle cavità
in un sentire che tutto unisce
con la testa a completare il viaggio
e oltre non posso transitare
e niente più, oltre questo bastare»

Il processo di metamorfosi, la svolta, è coscienza pregnante della lacerazione, del «sacrificio», imparare a rifiorire con umiltà, da terra, in un brulicante «sentire che tutto unisce». La catarsi può così scaturire dal percepirsi «pieno / di tante parti / come tanti semi», dal farsi ascolto intimo del «coro dell’uomo» che chiede di non essere mito ma sussurro «a nuove vite».

«[…] Ridateci il dono di sedere sul silenzio
di farci piccoli con grandi occhi
come gli insetti immersi nella terra
per ascoltare crescere le radici,
ridateci il dono di entrare nelle fessure
o farci trasparenti per attraversare i muri:
si raggiungano le orecchie dei dormienti
vengano sussurrate profezie a nuove vite»

Elisa Nanini

 
 
 
 
Troppo fondo quel fondo
troppo nero quel nero
nell’assenza verticale
degli amori mai avuti.
«Tiratemi su, appeso
da una caviglia!»
 
La voce è più vera
tra le lacrime andate
nel pozzo dei desideri
trovi molto se perdi
mentre resti sospeso
nel miracolo del corpo
 
Solo oscillando tornerò
piegando forte la schiena
aggrappato coi pugni
alla corda d’oro:
caduta e risalita sono
la stessa luce emersa
 
 
 
 
 
 
osicraNarciso
diviso da un filo
simmetria perfetta,
ricerca di equilibrio
nella perpetua altalena
tra comparsa e scomparsa
 
 
 
 
 
 
Il fiore scoperto dalle ninfe
dall’altra parte del fiume
tra gli alti ciuffi d’erba
a formare una breve parabola
è ora venduto nei supermercati
le sue campanelline dorate
sono ora un giallo ridente
colpito da un neon potente
uno smile senz’anima.
Gli avventori e gli astanti
‒ privi di memorie ‒ ignorano
quante trasformazioni ha avuto
quel nero terreno da cui è cresciuto
per apparire ricurvo su di sé
e non dritto a sfidare la luce del dio