Ogni cosa come noi viene da altrove – Vanni Schiavoni

Ogni cosa come noi viene da altrove – Vanni Schiavoni

Foto di Dino Ignani

 
 
 
 
IV
 
Kornati
 
Ti metti a pretesto con l’aria dimessa dell’isola
roccia a picco senza umanità
e pochi cespugli che non vorrebbero essere lì.
Il vento calmo fa poco rumore:
è in silenzio che allunghiamo il braccio
postiamo le mani oltre il blu colato sull’acqua
che ci pesca distratti a pascolare il tempo che resta.
I morti non sono tra noi
non in quest’ora del giorno
quando appaiono lo fanno ai bambini
come amici immaginari con la loro altezza esatta.
Noi ripensiamo alla nostra infanzia senza massacri
senza alluvioni o sismi, un gioco o una scommessa era tutto
quello che mocciosi avevamo da perdere.
Eppure questi attorno cresciuti dopo il peggio
sono ciò che l’occhio disconosce
ma la memoria della specie conferma.
Quando smetteremo di essere tentativi?
 
 
 
 
 
 
VI
 
Šibenik
 
Ogni cosa come noi viene da altrove:
le colonne le sfingi le croci
le banconote nelle tasche, le bifore e il leone
i campanili conficcati come picche in attesa di teste
il furore di maestranze impiegate come fari da falene
e Venezia in filigrana.
Si allontanano sui barconi nell’acqua che scricchiola
poiché il nemico ottomano è perduto
coi suoi macellai dietro i baffoni spezzati
e nel fondo scolora Šibenik sulla malta silenziosa.
 
 
 
 
 
 
XII
 
Dubrovnik
 
La devastazione è stata rimessa a posto
rinnalzati i colonnati
i cumuli di stele sono onde
e ogni masso una citazione da mura scorticate.
C’è un uomo che succede sulla strada
raccontando voli di case abbattute sul fronte
il canto che riempiva le sopravvissute sulle scogliere.
Ci tiriamo ancora sui gradini deboli
sulle salite malagevoli
agli affacci di tornanti impervi su cupole di siccità e uliveti e da qui
ogni angolo del mondo può essere visto.
Preferisco l’alone come di ritorno di questa attesa
il bisbiglio contorto che sguscia
dalle cicatrici di monti supposti da qui.
L’ultimo giorno in questa parte di Croazia
lo dimentichiamo rovesciato in mezzo
allo spiazzo spoglio dell’Assunzione:
è il punto focale, è raccogliere tutto.
 
 
(Vanni Schiavoni, Quaderno croato, Fallone editore, 2020)
 
 
 
 

L’opera, nonché la tematica complessiva di questa, sembra proporre una sorta di percorso simbolico, o meglio computa un Aratea – codice astronomico dell’epoca carolingia – in cui si districa la costellazione della mancanza, dell’assenza di un valido referente (storico, e non) in cui allignare anche la propria ragion d’essere.

Schiavoni, nel suo proporre un quaderno come cronaca del dramma personale, ritrae così facendo tutto il complesso di luoghi e istanze per cui riproporre un metaforico ritorno al non avuto, al non più possibile, ed al non più realizzabile.

Materiato in un verso ampiamente ipermetro sul versante formale, e stilisticamente pregno di un certo onirismo dell’impercettibile, il verso paga omaggio alla “poetica delle cose” della seconda metà del secolo ventesimo, soprattutto nell’utilizzo del didascalismo, e dell’esornativo aggettivale – ponendosi nella scia retorica della sospensione nell’intangibile da un lato; e, dall’altro, configurando la poesia come adesiva alle materie della realtà, in uno scambio osmotico per cui l’interno del verso non viva meno in simbiosi dell’esterno di questo.

Similmente, è questa l’urgenza primaria del libro: la ricerca esasperata dell’etimo, vissuta sia nella speranza di poterlo trovare, sia nel terrore di smarrirlo, sia nell’angoscia di non trovarne uno sufficiente alla realizzazione personale.

Spostandosi dunque a piedi scalzi tra le macerie di ciò che sia rimasto – di quel che è locus desperatus che, proprio in quanto disperato, in filologia indica un luogo corrotto oltre il sanabile – il fondamento all’opera riguarda l’infanzia, come dimora del non-ritorno, ovvero come luogo del negativo dove ogni singola altra sfaccettatura della crescita individuale ritragga per sineddoche il conflitto che ha portato alla disgregazione la Jugoslavia.

La capacità toponomastica dell’autore consiste nel fatto di recuperare – se non anzi restituire – la vita ad una ambientazione che l’ha smarrita, sanguinandola fuori di sé stessa; per instaurare e rendere congrui sia l’impegno che l’afflato personale, al contesto extra-corporeo, geografico e memoriale che sia.

Così il sentimento dell’assenza, dell’attesa berciante e dell’altrove anelato – elemento certamente in linea con le correnti di poesia contemporanee – affonda e radica nel sentimento della lontananza e nella distanza, che assieme corroborano all’impalpabilità dell’intangibile desiderato, anellando così alla memoria il futuro, esorcizzandolo.

 

Carlo Ragliani