Notturno formale – Stefano Bottero


Notturno formale, Stefano Bottero (Industria e Letteratura, 2023).

Leggendo il Notturno formale di Stefano Bottero si notano nervi stilistici di tanta poesia contemporanea. Prendiamo in considerazione la diffusione di riusciti dialoghi con i palinsesti fotografici – una felice intuizione che fa sbandare la poesia in una congiura pulsionale e voyeuristica, rendendo i testi meno castigati – e il destino di una poesia che ci restituisce l’impostazione esibita da designer del verso. Oppure, la previsione intellettualistica si oppone alla piega dell’evento o allo sciame traumatico che questo evento comporta, tutte o quasi mode culturali; quanto detto finora insiste anche su una capacità trasformistica della poesia di oggi capace di attraversare l’immobilità del presente senza tenie dialettiche o drammi della ragione. La poesia italiana degli esordi ha un solo collante ideologico: la sottile rinuncia alla realtà per un programmatico naufragio nella reclusione timorata del campo largo del referto del trauma.

Notturno formale si annuncia come «parola che nega sé stessa», perché il lato notturno della vita sembra avere in questi versi il nitore di un orizzonte visivo irriducibilmente legato alla catena di significati: «la gola chiusa come il gas in cucina», «i tuoi occhi sono incendi spenti». L’attitudine ansiosa dei versi di Bottero, un verso a metri quadri di corridoi senza coni di luce, trova dei momenti di felicità sperimentale dal valore instabile e straniante, in un soggetto dal craving alcolico («bevo gli incubi») buono a «coltivare i danni / confessarci ancora con i detersivi», oppure in qualche tentazione neodecadente percepibile in tutta l’opera, «drogarsi è memoria / rendere / ogni perversione dipendenza». Lo squallore domestico in questi versi sembra assuefarsi alle cose, ma l’evocazione del corpo e della voce al modello lacaniano di parlare alle cose è catturato dalla prigione delle immagini (vera e proprio delirium tremens della poesia di Bottero, come resa del suo «insistere nel buio /dell’instabile»).

Questa lingua forsennata alla ricerca del punctum non è pari alla grazia di alcune eredità rugginose rossellian-bellezziane: «termineremo per consumazione. / questo è l’opposto della claustrofobia, schiudersi – al vuoto che ti nasce dentro / dopo aver dato di stomaco. / sedie – nascondersi». Chissà, potremmo parlare di una poetica gnostica inequivocabilmente estetica o di una quotidianità ridotta a orizzonte verbale, utile a una normalizzazione poetica?

Ci si accorge nella parte finale dell’opera che la poesia non è certo meno svuotata da un fondo espiatorio, sebbene sembri aleggiare il fantasma di una Sarah Kane sgranata dalle diafane intolleranze tantalesche: «[…] dimmi / che morirò comunque. / che le macerie sono fasi / come aspirine prima di disafarsi in alcol / abrasioni / disobbedirti. […]». Ecco, la poesia di Bottero vira verso un morboso, psicodinamico, processo di spoliazione dell’esperienza, depurazione lirica – «la malattia va meritata / nel respiro» – (un lirismo oscuro sempre reciso, mai in forma lieve, al posto di automatismi teorici fortemente conformisti). Le immagini di Nerina Toci imprimono velocità ermetica ai testi incastrandosi bene ai linguaggi delle agonie amorose espresse nelle foto di Nan Goldin, sicuramente vicine agli inferni effusivi delle camere ottiche di Bottero, questo urgente ermetico-teorico desublimante.

Michele Paladino

 
 
 
 
la gola chiusa come il gas in cucina
tra le commissioni
battezzare – perché non cambino aspetto
i rami tagliati
                      senza metodo
l’ansia non ha contenuto
 
 
 
 
 
 
non riesco a dormire se respiri
nella confusione – venire
meno
come i segni delle corde dopo i giorni.
 
coltivare i danni
confessarci ancora con i detersivi.
 
 
 
 
 
 
tremare nel tuo corpo come altrove
ogni possibile misura
            – Congedo
si stringe al collo come cassetti aperti
Coercizioni
con cui giochiamo negli alberghi.
 
vorrei farti vedere casa mia
ricominciare a mangiare dal pavimento.