Notarelle montaliane su Leopardi

Nelle settemila pagine critiche di Eugenio Montale, Giacomo Leopardi non si trova a proprio agio, perché sembra non essere preso nella dovuta considerazione. Il genovese scrisse su di lui un solo articolo, pubblicato nel 1949 nel “Corriere d’informazione”: argomento? Il passero solitario. Ma Pietro Gibellini ha passato in rassegna gli accenni sparsi del poeta ligure sul grande recanatese. Qualche critico ha parlato di una sua “fuga” da Leopardi, ma per quale motivo? Per timore riverenziale o per altre ragioni che non conosciamo? Il documento più antico è pubblicato nel “Quaderno genovese” del 1917 in cui il genovese, mettendo in dubbio la sopravvivenza non solo dei libri ma della poesia stessa, parla di quattro poeti da salvare (dubbio già foscoliano che viene ripreso dall’autore anche nel suo discorso per il conferimento del Nobel): Dante-Leopardi-Tasso-Poliziano. Nel 1949 riprende l’argomento e, fra i dieci autori da mettere in serbo, ripropone Dante-Leopardi-Tasso, cui aggiunge la triade ottocentesca Carducci-Foscolo-D’Annunzio.

Nel 1929 elogia Goffredo Bellonci per aver sostenuto che Carducci-Pascoli-D’Annunzio, continuando l’opera di Dante-Leopardi-Tasso, hanno avuto il merito di aver redento la nostra letteratura dal romanticismo straniero. Ma, al di là delle differenze fra i due, – scrive Gibellini – “i riconoscimenti montaliani della grandezza di Leopardi sono espliciti”. In un articolo del 1951, il genovese riconosce come “giganti” della nostra poesia Petrarca-Leopardi-Pascoli, mentre riserva la qualifica di “grandi” a Monti-Tommaseo-D’Annunzio. Due anni dopo Leopardi appare ancora associato a Petrarca, come “modello vitale della lirica europea”. I critici si sono chiesti quanto i Canti abbiano contribuito alla formazione letteraria di Montale, che, nel 1946, ricorda di aver mandato a mente brani di Ippolito Pindemonte, “Bella Italia amate sponde”, il “Brindisi” di Girella di Giuseppe Giusti, “Ferocemente la visiera bruna” di Francesco Fulvio Frugoni, “Il falco e il gallo” di Giacomo Zanella che “gli rimasero più appiccicati del “Canto del pastore errante dell’Asia”, pur ammettendo che “la memorialità di una lirica non è in sé indizio di valore o disvalore”.

Nel 1961 elenca le proprie letture giovanili: “Quanto ai classici ricorderò naturalmente Dante, poi conobbi il Tasso, Petrarca, Foscolo, non sono mai stato un lettore accanito di Leopardi, per colpa mia certamente. Poco leggevo di Pascoli, non avevo ancora scoperto il nome di Eliot”. Nel 1954 mette in rilievo il leopardismo en prose della Ronda, che preferiva le Operette Morali agli Idilli. Elogia inoltre Emilio Cecchi che era attratto tanto dal poème en prose baudelairiano quanto dalla prosa d’arte leopardiana. Tornando sull’argomento nel 1963, collega la “restaurazione” e l’appello all’ordine della rivista al classicismo nazionale, modellato sulle Operette Morali. Si pone inoltre l’interrogativo: quale autore compendia esemplarmente in sé la letteratura e la cultura di un’epoca? Montale, perplesso, non sa scegliere fra Goethe e Baudelaire, Keats e Leopardi, Hölderlin e Tolstoj, Verdi e Wagner. Loda i puristi che dicevano: “Teniamoci ai frammenti greci e al divino Leopardi: il resto è intellettualismo, è costruzione, è “macchina”.

Per lui il poeta delle Ricordanze è un artista dalle forme chiuse e aperte, incline a far coincidere lirica e brevità, ma condanna il tentativo di Ferrucio Busoni di mettere in musica Il sabato del villaggio. Riflettendo sulla poetica pascoliana del Fanciullino osserva quanto sia necessario che accanto al puer esista anche l’uomo, poiché solo “se si incontrano un uomo molto grande e un fanciullo molto piccolo nasce la grande poesia”, quella di Dante, Shakespeare, o magari Keats e Puskin; al contrario in Verlaine e Pascoli, troviamo solo la voce del fanciullo, ma sarebbe difficile e ridicolo indagare quanto in Leopardi e Foscolo convivessero l’uomo e il puer.

Nel complesso possiamo dire che le disiecta membra del Leopardi montaliano non giungono a riunirsi in un compiuto ritratto, ma formano piuttosto, come nota Gibellini, l’incerto, fantasmatico e involontario ritratto mentale di Montale. Il poeta ligure non manca di evidenziare la sua segreta affinità con il recanatese nell’ambito di una poesia aperta ad orizzonti universali. Inoltre confessa di condividere l’isolamento sociale del Leopardi e per questo si propone, in una intervista del 1955, di “rapportarsi alla tradizione, senza esserne succubo”. Altra affinità montaliana con Leopardi consiste nel riconoscere che ambedue “correggono poco” i loro testi (quest’ultimo, prima di comporre una poesia, soleva metterla in prosa, mentre il genovese ammette che “il suo modo di lavorare è assai diverso”).

Non mancano deliziosi ricordi di Montale studente che, quando frequentava la scuola dei Barnabiti, i professori (laici) trovavano Leopardi “deprimente, legnoso e lagnoso” e lo saltavano a piè pari passando direttamente a Foscolo e a Carducci. Inoltre puntualizza ironicamente, in un articolo dal titolo “Senza quattrini niente capolavori”, che, se l’editore Stella di Milano fosse stato meno tirchio, la letteratura italiana avrebbe potuto vantare la traduzione leopardiana di Platone. Ma perché il Montale, noto per la sua “oscurità” soprattutto delle Occasioni e Finisterre, apprezza tanto l’Infinito, “la più chiara poesia del mondo”? E ancora: a chi possono interessare le disquisizioni ornitologiche se il passero leopardiano, “solingo augellin”, in realtà sia un passerotto, un uccello lontanissimo dalla solitudine? E soprattutto è reale o ha, come l’oseleto/uccellino meneghelliano, “l’occhio un po’ vitreo”, dovuto a un Salmo biblico (sicut passer solitarius in tecto) o al Petrarca (Passer mai solitario in alcun tetto)?

Gianni Giolo