Non tralasciare il potere dei giorni dispari – Arianna Vartolo



 
 
 
 
Non tralasciare il potere dei giorni
dispari; quello degli attimi fuori
fuoco – fuori tempo. trova i contorni
 
di questo mio dedalico costato
e lascia entrare luce e sangue sempre
nuovi; alle tue dita ho dedicato
 
il nume di ciò che c’è e non si vede.
 
 
 
 
 
 
Quel che fatto a mano di me rimane
in luogo di qualche memoria,
si conserva intatto in un corpo nudo
 
di ogni cosa; in forma di storia
senza fine che sia stata scritta
ancora. E così a contatto
 
con la carne, in un intarsio di senso
e di scoperta, trova seme
e terra che sempre gli sia nuova.
 
Scopri vivere nella mia carne
ferite come quelle
fatte con i fogli di carta; a darne
 
sapore il sangue, ancora
(per) poco. Sai calcolarne misura
e peso e fondo, ma ora
 
– solo ora – hai imparato come leggerle.
 
 
 
 
 
 
Un corpo a corpo, della lotta è un corpo
quello che compromesso rimane
nella debole sua esistenza; in una qualche
forma di resistenza, giunta – come mani
in preghiera – al suo punto ultimo
di contatto, si volta di schiena
a mostrare la nuca nuda
e ossee verità. Farne lettura
estrema, da destra verso sinistra – verso
per verso – sarà la nostra
unica possibilità di riscatto.
 
(Arianna Vartolo, inediti)
 
 
 
 

Nella parola di Arianna Vartolo il corpo si fa strumento di accesso all’invisibile, soglia attraverso la quale è possibile realizzare la percezione dell’altrove e di un margine di significato che trascende il quotidiano, allo stesso tempo completandone la possibilità di avere valore: ciò avviene anche mediante uno sguardo particolarmente attento all’imperfezione dell’esistere, alle aritmie e alle contraddizioni, il cui sereno accoglimento consente di comprendere il mistero delle cose del mondo, e percepirne il divino immanente.

Il primo testo selezionato esprime in particolar modo quest’ultima visione, con l’invito a “non tralasciare il potere dei giorni / dispari … gli attimi fuori / fuoco – fuori tempo”. Da questa asimmetria prende linfa vitale il dettato: successivamente i riferimenti vanno alla corporalità dell’io lirico (“trova i contorni / di questo mio dedalico costato”) e l’invito diventa quello a lasciare entrare “luce e sangue sempre / nuovi”; il dialogo con il tu imprecisato cui sono rivolte tali esortazioni è ragione sufficiente per intuire “ciò che c’è e non si vede”, trasfigurato in un’entità divina – quasi a ribadirne la valenza sacra, portatrice di senso.

La fisicità si trasporta poi a ciò che è stato “fatto a mano” e “di me rimane”, a ribadire la provvisorietà dell’uomo e della sua materia rispetto alle sue opere, per poi concentrarsi nuovamente sul “corpo nudo / di ogni cosa”, possibilità di concentrare lo sguardo sulla natura autentica di ogni dettaglio del mondo attraverso la sua corporalità piena, di là dalle sue sovrastrutture apparenti. “E così a contatto / con la carne, in un intarsio di senso / e di scoperta, trova seme / e terra che sempre gli sia nuova”: prospettiva, cura, radicamento di significato e rifioritura in una fisicità che diventa possibilità di rinascita nonostante la provvisorietà dichiarata dell’uomo e delle cose mortali, nonostante le ferite della carne, la “misura / e peso e fondo” del sangue. È pertanto essenziale imparare “come leggerle”, imparare, dunque, il linguaggio del corpo nudo dell’uomo, del sé e di ogni fenomeno e cosa del mondo, per accoglierne quel quid sacro che si ritrasmette in un continuo svanire e rinascere in “terre” nuove, diventando nuovo “seme”, imparare tutto questo per non cedere all’apparente afflizione rovinosa del dissolversi della materia e dell’essere umano.

“Nella debole sua esistenza”, è comunque prima di tutto “un corpo / quello che compromesso rimane”, in un confronto che è principalmente “un corpo a corpo”, “una qualche / forma di resistenza”: la possibilità di comprendere e di accogliere l’altro da sé è principalmente una possibilità corporale, e si realizza attraverso tale campo di senso, piuttosto che mediante la ragione piena o la logica; il richiamo alle mani giunte “come … in preghiera” non fa che confermare la natura sacra dell’operazione, pur destinandosi a un “punto ultimo / di contatto”, accesso al divino attraverso la natura fisica e creaturale del mondo, e non in opposizione ad essa.

Riconoscere le “ossee verità” della “nuca nuda” voltata “di schiena”, fare “lettura estrema” di questo e di ogni altro dettaglio del corpo di ogni cosa del mondo, ribadisce infine la Vartolo, “sarà la nostra / unica possibilità di riscatto” – a ribadire la necessità di non dimenticare la natura fisica dell’esistere, mettendo in guardia contro ogni deriva di ricerca che, prescindendo da tale consapevolezza naturale, rischi, attraverso un eccesso di raziocinio o esercizio logico, una pericolosa deformazione del mondo, del vivere, e della realtà di cui siamo parte organica, sensibile e cosciente.

 

Mario Famularo