Non come luce – Isacco Turina


Non come luce - Isacco Turina

Non come luce, Isacco Turina (Terra D’Ulivi, 2021).

Con la posizione dubitativa che può assumere ogni tentativo – perfino il più convinto – di sancire una classificazione definitoria alla poesia, sembra ragionevole ipotizzare che la seconda opera poetica di Isacco Turina, pubblicata da Terra D’Ulivi nel 2021 all’interno della collana “Deserti luoghi” diretta da Giovanni Ibello, e che ha come titolo “Non come luce”, sia ispirata da un realismo cognitivo che appronta un’indagine singolare del plurale ma non cade mai in un mero descrittivismo, evitando di buon grado anche il prescrittivismo come sua diretta conseguenza.

La silloge inizia con “Tre d’amore”. Si tratta di tre poesie dedicate all’amore o di tre soggetti d’amore e cioè un io scrivente, un tu ipotizzabile per relationem e un noi, riassumibili, forse, anche in un’unica ed equivoca personalità?

Il primo verso è un’esortazione che attraversa il senso di purezza del macabro per giungere alla percezione di terribile visionarietà: “Dimmi il fiore che porti nello stomaco/che porti nella mente”.

È un testo fondato (o fondativo?) sulla seconda persona pronominale come particella dell’io individuale e sociale attorno a cui orbitano elementi esogeni che vengono a far parte della misura del corpo nominato e nominabile – ma non determinabile – come si evince dal continuo domandare: “Dimmi l’insetto che ti ronza intorno/la cicala che stride nell’orecchio/la sapienza del ragno che ti abita”.

Nel secondo testo l’autore chiama in causa l’amore con il suo nome, sembra descrivere l’impossibilità dell’incontro di due unità psico-esistenziali che richiama, per avventura, l’impossibilità di adesione a sé stessi, suggellata dallo stesso amore che rende inafferrabile la propria immagine proiettata nell’altro.

Nel terzo testo piomba l’oscurità dell’offerta, su chi dona e su chi riceve. Interviene il dialetto a sancire un’ulteriore cesura, quella tra il dicibile e il comprensibile, appena affievolita dalla traduzione che non edulcora la chiusa caustica della parola di Turina.

Segue, nell’ “Interludio”, una prognosi sociologica – in linea con le competenze professionali dell’autore – del dettame umano, impersonale e latamente prescrittiva (la prognosi e non la poesia) di un destino comune indesiderabile eppure collettivamente godibile: “Cibarsi d’ombre fino a quando/sia luce tutto intorno/è ancora il congedo più bello”.

Nei testi successivi compare la prima persona plurale. Nella descrizione di scenari catastrofici emerge il profilo assorto di un’epica della pulsione psicologica che si cimenta nello sfalsamento dei piani temporali e delle competenze umane su di essi: “Quando il dente è penetrato/siamo passati su un ponte sottile./Barche infinite attendono/per navigare la penombra”.

Appaiono i titoli alle singole poesie come necessario explicit ermeneutico, sempre che si voglia accogliere la tesi della narrazione autoriale improntata all’analisi sociale che, seppur di certo suggestiva e probabile, forse non è l’unica possibile nella comprensione di una silloge stratificata come quella in esame. D’altronde è sempre bene discernere il processo creativo dal suo autore, così come convintamente predicava Jung nella sua indagine sulla poesia.

“Profughi”, ad esempio, appare come un testo dalle molteplici interpretazioni, con una dedica manifesta in esergo e un corpo lirico-narrativo, riecheggiante una parabola atea, in cui si riuniscono la perdizione della vittima e quella del carnefice -invisibile ma non per questo assente-. Parallelamente, mutando piano gnoseologico, la condizione umana descritta in questi versi appare trasfigurabile, per metafora, nell’autopercezione contemporanea della soggettività, a cominciare dal titolo: “Beato chi mai inciamperà/negli attimi eterni/che ci inghiottirono farfalle/per risputarci vermi”.

Si torna – o si continua a transitare- nel presente in cui un severo censimento registra la turpitudine del tempo presente (intrisa di un antico passato non abbandonato) in cui si muore con facilità, brevemente. Un presente in cui l’etica si divarica tra il sacro e il profano, tra la perversione e il perbenismo. La morte accade come lo smarrimento di effetti personali per strade percorse da sconosciuti, non si sa mai come (si) va a finire.

Il dramma contemporaneo assume la sua fisionomia più appropriata: un sarcasmo torvo, apparentemente nichilista e pieno dell’antica e legittima confusione tra l’essere e il non essere (che non si escludono più a vicenda): “Quando mi sarò spento, disperdete/i miei dati nel vento”.

Incursioni di personaggi stranieri imprimono una spazialità concettuale che esonda dal regionalismo descrittivo, abbraccia ragioni (e non regioni) diverse che si intersecano con difficoltà in uno stesso tessuto sociale a cui sfugge il confine psico-etnografico: “Il ritorno è sempre monotono,/si finisce a parlare con le nuvole”.

Un eloquio dai toni (ma probabilmente non dagli intenti) baudelairiani scandisce il ritmo di una cantica del male in cui la società odierna, costituita da anti-eroi mediocri e animaleschi, schernisce sé medesima tra traumi personali e lacerazioni collettive.

La religione dell’era digitale e delle “plastiche preziose” si sostanzia in un proselitismo ben educato, consapevole della finitezza del suo lascito, capace di autoironia, avvezzo agli esercizi della modernità che pure non dimenticano i necessari politeismi del passato in funzione del monoteismo del reale.

Ancora un cantico (o un ri-canto) inverso è quello che Turina – l’uomo moderno – rivolge al Sole e alla Luna, vecchie muse che hanno tradito il loro archetipico poeta.

Uno sfalsamento tra la biologia e la tecnologia avviene senza essere contrastato, sembra una normale decodifica della vita dagli attuali codici esistenziali, eppure affiora un barlume di tenerezza ancestrale in cui “al culmine del controllo/lasciamo che tutto accada”.

Tre donne svelano i temi dell’eutanasia, delle questioni di genere e dei disastri naturali, impersonano il trauma e accolgono la diversità.

“Non morirete dove siete nati” sembra una minaccia, una condanna veemente che giunge da un tribunale antico. L’utilizzo del dialogo all’interno del verso è forse una metafora di come gli individui si scambiano tra di loro le impressioni sulla sofferenza: un’indulgenza reciproca, agghiacciante ed escatologica.

“Non come luce, ma come la sabbia penetrerete nei loro occhi chiusi” è il compito dei versi di una poesia che sonda la compenetrazione del presente in ogni ansa sanguinante del tempo umano.

Gisella Blanco

 
 
 
 
Dimmi il fiore che porti nello stomaco
che porti nella mente.
Fiore scuro di paura
fiore giallo dello sforzo
fiore bianco dell’attesa.
Dimmi l’insetto che ti ronza intorno
la cicala che stride nell’orecchio
la sapienza del ragno che ti abita.
La forma che tu vedi è una follia:
sotto la giusta ombra intimamente
si muovono i giardini inconsapevoli.
 
 
 
 
 
 
1. Censimento
 
La storia è un’acqua ogni anno più sporca.
Dei molti che morirono stanotte
rimangono le immagini scattate
in un giorno qualunque.
Riassumi la tua vita in poche frasi.
«Ho preso ordini da un libro sacro.
Ora li prendo dalla mia automobile.
Quando ne ho voglia pago un’altra donna
per farmi sculacciare e insultare.
Non ho tempo di capire».
«Quando gli organi impazziscono
un uomo mi accompagna in ospedale,
mi descrive la luna nelle attese.
Splendida vita, dondolavi
dai rami e sapevi di bucato.
La mano di un estraneo ti ha raccolta».
«Ho vissuto il mio tempo in crociera.
A bordo della nave occidentale,
la Grande Anestesia,
mi sono divertito
fino al disgusto, all’oblio.
Quando mi sarò spento, disperdete
i miei dati nel vento».
 
 
 
 
 
 
Geometria
 
Nove anni di esitazioni
prima di possederci.
L’amore è la linea
più lunga fra due corpi.