In occasione della Festa della Mamma 2024 Francesca Innocenzi scrive di Niobe e della ferita silenziosa del materno. Auguri a tutte le mamme!
La Redazione
Il mito di Niobe, madre orgogliosa che arriva a sfidare gli dei e viene punita con la morte dei propri figli, è una delle narrazioni del mondo antico più adatte a sviscerare i sentimenti intrinseci al materno, anche nei risvolti più estremi e distruttivi.
Niobe era figlia di Tantalo e moglie di Anfione re di Tebe. Il racconto più completo della sua storia è riportato da Omero; in seguito, Eschilo e Sofocle le dedicano due perdute tragedie. Alla sua vicenda fanno riferimento i poeti Bacchilide, Pindaro, Saffo, Callimaco e, nella romanità, Ovidio.
Madre di molti figli ed orgogliosa del loro numero elevato (dodici secondo Omero, quattordici per Ovidio), la donna osò dichiararsi superiore a Latona, che aveva generato due soli figli, Artemide e Apollo. Così questi ultimi, per punirla della sua presunzione, sterminarono tutta la sua prole con le loro frecce: Apollo tese un agguato ai figli maschi durante una battuta di caccia, mentre le figlie femmine, secondo una tipica divisione di genere, vennero uccise da Artemide all’interno delle mura domestiche, nel palazzo di Tebe. Colta da sofferenza immane, Niobe fu trasformata da Zeus in una pietra sul monte Sipilo, su cui si diceva che in estate scorressero le sue lacrime. Secondo una tradizione ricordata da Igino, una delle figlie, Cloride, sarebbe scampata alla strage e sarebbe diventata madre di Nestore, longevo eroe di Pilo, destinato a vivere tanti anni quanti Apollo ne aveva sottratti ai Niobidi. L’origine del dolore di Niobe è comunque riconducibile alla sua discendenza dal padre Tantalo, il quale, per aver divulgato i segreti degli dèi, fu condannato a un eterno supplizio nel Tartaro, impossibilitato a nutrirsi e dissetarsi perché cibo e acqua gli sfuggivano continuamente. La colpa di Tantalo sarebbe ricaduta, in seguito, sulla sua stirpe, determinando la rovina della figlia e dei nipoti. Versioni differenti indicano Niobe come compagna di Foroneo, re di Argo, o come madre delle stirpi greche; antica credenza, questa, verosimilmente riflessa nell’elevato numero di figli attribuitole dal mito. Tale personaggio potrebbe quindi adombrare, per esteso, una sorta di dea madre primordiale; del resto Platone nel Timeo(22a) la definisce come prima donna mortale amata da Zeus, e nell’Antigone sofoclea (834-838) Niobe è detta essere figlia di dèi.
Dal punto di vista iconografico questa vicenda mitologica si trova frequentemente rappresentata su ceramica: è il caso del vaso attico delle Niobidi conservato al Louvre. Tali raffigurazioni sembrano riferibili ad un perduto, celebre affresco di Polignoto riproducente la strage dei Niobidi. Anche nella pittura pompeiana si riscontrano numerose tracce del soggetto. Tra le opere scultoree, ricordiamo la Niobide degli Orti Sallustiani e il gruppo dei Niobidi del tempio di Apollo Sosiano presso il Campo Marzio a Roma, entrambe risalenti a originali greci. Agli Uffizi si trova un gruppo di dodici sculture, anch’esse copie romane da un originale greco, di datazione ignota. Le statue, che danno il nome alla Grande sala della Niobe, rappresentano in maniera drammatica e teatrale personaggi in fuga o colpiti a morte. Il centro focale del gruppo è Niobe, che tenta di proteggere la figlia più piccola e dirige lo sguardo atterrito e supplichevole verso il cielo.
Il mito di Niobe si distingue per un evidente intento educativo: non solo le madri, ma gli esseri umani in genere, vengono ammoniti contro i danni della superbia. Se si restringe il campo alla sfera del materno, la figlia di Tantalo è uno dei principali exempla del dolore di una donna e madre; questa esemplarità compare nell’Iliade(XXIV, 602-617), quando Achille, per convincere Priamo a desistere dal suo lutto, porta a modello proprio Niobe, che alla fine, pur stravolta dalla sofferenza, ha dovuto rinunciare al digiuno per tornare a nutrirsi. Nell’Antigone di Sofocle (823-838) Antigone, sul punto di entrare nell’antro che le farà da tomba, paragona il proprio destino a quello di Niobe, che viene dipinta come schiacciata della pietra che l’ha avvolta come un’edera.
L’immobilità fisica, emotiva e comunicativa di Niobe emerge soprattutto dalla rappresentazione del personaggio nella tragedia, in particolare eschilea, a giudicare da quanto i frammenti pervenutici consentono di ricostruire. È dalle Rane di Aristofane (vv. 911-915) che ricaviamo un’immagine dell’eroina, protagonista dell’omonima opera di Eschilo, silente e velata in segno di lutto, sul sepolcro dei figli. In questa impostazione scenica l’importanza della tomba, attraverso l’interazione tra la materia che la compone e il corpo della donna, sembra preludere all’imminente trasformazione di Niobe in pietra. La madre afflitta traduce di fatto la propria ferita nella pietrificazione; così, nell’atto performativo, la metamorfosi viene richiamata da un lato tramite la fissità della posizione sul sepolcro, dall’altro dall’essere silente; condizione, questa, che evidenzia l’incapacità umana di comprendere il senso del reale e spiegarlo mediante il linguaggio.
Del silenzio dell’eroina non vi è traccia nelle versioni del mito, e ciò avallerebbe l’ipotesi che il mutismo possa essere stato impiegato come elemento significativo nell’azione teatrale. Nella prospettiva di Eschilo, la negazione della parola potrebbe essere interpretabile come una sorta di contrappasso rispetto alla colpa di cui la donna è accusata, la thrasystomía (insolenza, arroganza verbale), come suo padre Tantalo. Non si esclude, inoltre, una analogia con la dea Demetra che, nell’inno omerico a lei dedicato, è ritratta velata e silenziosa dopo la scomparsa della figlia (vv. 182, 194). In alcuni culti misterici il silenzio è parte integrante di rituali volti a promuovere la fecondità; né si può ignorare la personale adesione di Eschilo ai misteri eleusini.
Resta il fatto che Niobe, madre condannata al più terribile dei dolori, viene infine liberata grazie alla trasformazione in pietra, congelata in un perenne stato di liminalità, di non morte, riconducibile forse alle sue origini celesti.
«Come questa pietra del S. Michele/ così fredda/ così dura/ così prosciugata/ così refrattaria/ così totalmente/ disanimata// Come questa pietra/ è il mio pianto/ che non si vede». Mi piace pensare che questi celebri versi di Ungaretti affondino le radici nello stesso sostrato archetipico del mito di Niobe, dalla medesima cognizione della desertificazione interiore generata dal dolore estremo, verso l’esclusivo, auspicato rimedio del nulla dei sensi a fronte dell’impossibilità di trovare altra via di fuga dalla sofferenza e da uno stato di inestirpabile solitudine.
BIBLIOGRAFIA
D. I. Cagnazzo, La Niobe silente di Eschilo: una proposta interpretativa, «Gilgamesh»2 (2018), pp. 5-14.
L. Ozbek, Pietra su pietra: materialità e drammaturgia nella Niobe di Eschilo, «Lexis»40, 2 (2022), pp. 357-380.