Movimento e stasi – Massimo Palma


Movimento e stasi, Massimo Palma (Industria e Letteratura, 2021).

Per spiegare un evento storico e i suoi molteplici effetti mediati e immediati, sembrerebbe necessario o, quantomeno, opportuno dotare il testo di una struttura linguistica e argomentativa solida. Il primo indizio gnoseologico che Massimo Palma, autore di Movimento e stasi per Industria e Letteratura 2021, offre al lettore, invece, è proprio la scelta di negare qualsiasi immaginabile solidità formale e concettuale. La silloge, prima fatica poetica di Palma, raccoglie i fatti del G8 di Genova accaduti nel 2001 lasciando che sia il senso del trauma a parlare per fermi immagine, frammenti memoriali, schegge psichiche e visive. Sembra affiorare una concezione ultramoderna del trauma in cui si assiste alla pienezza dilaniante del pathos senza alcun pietismo, poiché la pietà annacquerebbe la verosimiglianza del dolore e il travaglio emotivo di una concreta compartecipazione a ciò che è irrimediabilmente accaduto: “Non siamo qui a dare indietro. A odiare meno/in questa piazza ormai più piccola tutti più vecchi/schiacciati dietro a ragazze/e ragazzi sempre più giovani/che hanno preso i colori/di nessuno di noi”. E proprio i colori, quelli di un tempo passato che si trascinano minacciosamente nel presente, rendono vivide le immagini che affiorano dai versi per sancire alla coscienza (e non solo spiegare) le dicotomie ideologiche ed esistenziali dalle quali si suole sfuggire: “Il ricordo funziona/in serie ordinate/e la serie degli agenti le azioni che ha fatto/le ha subito dipinte di nero” e ancora “Vedere abbiamo visto/e sappiamo che/chi nega ha un colore preciso”. Ci si destreggia con inquietudine tra le tre sezioni della raccolta che definiscono non solo il tempo narrato ma anche la funzione del testimone nell’incertezza dell’antefatto, nello scempio del fatto e nell’alea (irrisolta e irrisolvibile) del postfatto: still, movement e stasis sono i titoli delle sezioni ma, anche, alcuni tra gli elementi plurilinguistici che stabiliscono l’internazionalità del dramma e la soprannazionalità della politica della violenza. Il testo si svolge in componimenti lirici e brevi prose che si integrano in un serrato discorso civico e filosofico, pieno di riferimenti a precise circostanze storiche, a concetti socioculturali e a vicende politiche: “E tuttavia il capitale che è a favore del morto fece una cosa molto furba costruì gabbie alte e poi sparò al movimento e gli passò un sasso sulla fronte per dire che le pietre uccidono e che non c’è mai un sasso innocente. Un sasso che è stato non si dimentica più. Lasciato morire in una piazza il movimento si fermò si guardò e per anni si trovò bellissimo da morto”. Emergono, con apodittica precisione, dettagli (come il sasso che non ha ucciso e ha ucciso Carlo Giuliani), nomi (Lena, Carlo, Edoardo), luoghi (la scuola Diaz, Corso Torino, Gastaldi), oggetti (“A Zurigo al corteo respira il fumo i gas cs fanno piangere e strozzarsi”), citazioni (“Mentre a cento metri spostavano lanciafiamme/il dubbio era se scrivere sul ferro del furto avvenuto/in banca alla fondazione/o solo veloce no logo ancora”), rimandi storici operati con sapiente sarcasmo o sagace tragicità(“ogni giorno ha fame Gianni ha fame Gianfranco/ha fame Benito ancora fame./Ci piace ogni volta vedervi digiuni” e ancora “si ricordò che anche bin laden c’entrava con Genova che l’avevano detto i giornali. E quindi si preferì parlare di occidente d’islam”). Ciascun dato realistico rappresenta il dovere del ricordo e simboleggia l’irrimediabilità di un accaduto che continua ad avere conseguenze nella psiche collettiva e generazionale: la nominazione della tragedia appare come una inestirpabile radice politica, nonostante i tentativi di distorsione dell’informazione, le gravi carenze della giustizia e le abiezioni del potere dominante. La meditazione accorata di Palma sul “dirsi plurali” del movimento in cui “essere più forti e inclusivi e mostrare di aver chiuso col passato” non tralascia l’analisi delle conseguenze sociali, politiche, ideologiche e antropologiche di un fatto efferato, incastonato alla storia globale e a quella individuale. Il verso appare frammentato, breve, caustico, non cede agli eccessi della parola e della narrazione. Il linguaggio sembra mostrare i chiari influssi di un postmoderno mai del tutto abbandonato, in cui l’io si destruttura, abbandona l’univocità e l’assolutezza per accogliere un civismo condiviso e, finalmente, condivisibile. La frammentazione formale si unisce all’evocazione di immagini spezzate, lacerti di ricordi vissuti o conosciuti indirettamente: “non ricordare più la gioia il giorno prima/solo l’angoscia dopo a uscirne/le corse ai pullman gli occhi rossi/e ancora divise che salgono prelevano”. Parecchi soggetti femminili vengono celebrati nella loro elaborazione della violenza subita: la questione di genere si dilata a una percezione di superamento dei divisionismi biologico-culturali che ammantano tutte le faccende politiche. Si mostra, anzi, la possibilità di una evoluzione nascente dallo sgomento: “Ora/sono donne bianche/e costruiscono ponti tra chi somiglia ai nomi/sempre ripetuti”. Palma svolge un’interessante riflessione sulla fotografia, sul reperto visivo, sull’impatto che ha un pezzo di passato che continua a conficcarsi nello sguardo presente e, spesso, la sua poesia anima una visuale da dietro, all’indietro, che vibra nella tensione tra la stasi e il moto: “Fino a prima erano insieme/unite appena da mani a toccare da dietro/capelli rosa che cantano”. L’opera di Palma pone la domanda su quale sia il peso specifico della memoria alla fine dell’evento e chi siano, oggi, quei morti. Si pensi alla visione, lacerante e romantica, dell’amicizia, quando un amico muore e l’altro resta, secondo il filosofo francese Maurice Blanchot: “Dobbiamo rinunciare a conoscere coloro a cui ci lega qualcosa di essenziale; voglio dire, dobbiamo accoglierli nel rapporto con l’ignoto in cui essi ci accolgono, anche noi, nella nostra distanza. L’amicizia, rapporto senza dipendenza, senza un evento particolare e dove entra nondimeno tutta la semplicità della vita, passa attraverso il riconoscimento dell’estraneità comune che non ci consente di parlare dei nostri amici, ma solamente di parlare loro, non di farne oggetto di conversazione”. Guardando, forse, a quei morti e a quelle persone abusate di allora, come a cari amici lontani, Palma ci mostra come sia possibile onorare questo prezioso legame, nel rispetto e nel valore politico della memoria, senza cedere alla tentazione di sostituire la nostra vita alla loro morte, o viceversa.

Gisella Blanco

 
 
 
 
mezzi per un fine
 
non ricordare più la gioia il giorno prima
solo l’angoscia dopo a uscirne
le corse ai pullman gli occhi rossi
e ancora divise che salgono prelevano.
I manganelli i cortili morti nel sudore tra i sedili.
E urla riviste di notte e carceri.
 
L’esercizio della noia ogni seduta a riconoscere
chi eravamo e come siamo rimasti
assediati dalle unghie
né risalire né scendere ancora.
 
Uscire ancora vigili
dal ricordo. Dalle sue lingue dall’asfalto.
 
 
 
 
 
 
tentazione
 
il problema anni dopo è non rappresentarsi come
mosche nella rete
ma soprattutto non
immaginarsi come loro ancora maschi
leggere le fotografie di fiamme e barricate
non dire ancora una volta è lui che decide
al commissariato nascosto e mille schermi a visionare
un capo e poi un signore
un giudice che mastica tabacco e morde
dà gli ordini – sparare in aria mirare a terra.
 
La tentazione è rivedersi ancora in quegli estratti
bagnati dalle serie quando fuori dai ricordi
è cambiato tutto.
 
 
 
 
 
 
urla e voci
 
a luglio
ricomporre l’infranto scagliare ogni cosa necessaria
dall’altra parte.
 
Fai il movimento
lo rifai con tutte le voci.
Ma nessuna parola parla nei vicoli.
Sei puro movimento e il movimento ora è la pietra
lanciata ormai ferma nel ricordo.
 
I feriti si confondono le urla
sono uguali dicono le voci nella testa
poi alcuni li ammanettano
tra le urla tutte uguali li trasferiscono dove è concesso
di urlare di meno.