Mónica Zepeda (San Cristóbal de Las Casas, Chiapas, México, 1987)


 
Soy todos los rostros que imagino y tú
 
Sostener en el roce
o en las manos un sueño
de los roces del albor y de sus manos.
Distender la venganza
de las manos en una voz,
en un perdón y un sueño.
 
Ser la otra cara de la manera
de decirse con la mano zurda
las maneras más correctas
para sólo ser y no decirse:
         Soy todos los rostros que imagino y tú.
 
Aprender a perder la puesta de sol
por apostar al rostro que no da la cara.
Y tenderse, férreo y fausto, bajo el sol
que cae en un volado con su rostro hacia la palma.
 
Honrar el cuerpo colmado de sombra y carne
y pensar que la sombra
es otro cuerpo, sentir que nos amamos
como el cuerpo y que los besos
envejecen como la carne.
 
Ver que la ausencia es otro juramento
que jura no jurar y que la vida
que elude nuestra historia
es esa vida de aquello
que se nombra juramento.
 
Ahora mismo, en los ojos, una huella
nos muestra, desde dentro,
un camino; el amor retorna
como ese camino que nos conduce
a nuestra propia huella:
 
         Ya no soy lo que sembré. He caído de la rama.
         Las raíces bañan en los cristales del río
         su rostro incesante y nuevo.
 
Sostener en la vida el juramento;
en el final, un húmedo pañuelo.
 
Brotar como la dicha, humana
y azarosa, porque, a secas,
es la fuente y, a caudales, el final.
 
Derramar por las grietas los ojos
del cuerpo inagotable que ama
y evapora y es destello
de la propia ceguera iluminada,
que es ajena y es de uno
como el cuerpo inagotable.
 
Y en un perdón, en una voz
o en las manos de un sueño
ver nacer la paz que aún se gesta
en las memorias de la entraña.
 
 
 
 
 
 
Sono tutti i volti che immagino e tu
 
Trattenere nel tocco
o nelle mani un sogno
dell’attrito dell’albore e le sue mani.
Allargare la vendetta
di mani in una voce,
in un perdono e un sogno.
 
Essere l’altra parte del modo
di dire con la mano sinistra
i modi più corretti
per solo essere e non dirsi:
         Sono tutti i volti che immagino e tu.
 
Imparare a perdere il tramonto
scommettendo sul volto che non guarda in faccia
E sdraiarsi, ferreo e faustiano, sotto il sole
che cade in un fronzolo col volto verso il palmo.
 
Onorare il corpo pieno di ombra e di carne
e pensare che l’ombra
è un altro corpo, per sentire che ci amiamo
come il corpo e che i baci
invecchiano come la carne.
 
Vedere che l’assenza è un altro giuramento
che giura di non giurare e che la vita
che elude la nostra storia
è quella la vita di ciò
che si chiama giuramento.
 
Proprio ora, negli occhi, un’impronta
ci mostra, dall’interno,
un sentiero; l’amore ritorna
come quel sentiero che ci conduce
alla nostra impronta:
 
         Non sono più ciò che ho seminato. Sono caduta dal ramo.
         Le radici bagnano nei cristalli del fiume
         il suo volto incessante e nuovo.
 
Tenere fede al giuramento;
alla fine, un fazzoletto bagnato.
 
Germogliare come la gioia, umana
e vivace, perché, senz’altro,
è la fonte e, a tratti, la fine.
 
Versare gli occhi attraverso le fessure
dell’inesauribile corpo che ama
ed evapora ed è un flash
della propria cecità illuminata,
che è estranea e propria
come il corpo inesauribile.
 
E in un perdono, in una voce
o nelle mani di un sogno
veder nascere la pace che è ancora in gestazione
nei ricordi delle viscere.
 
 
Traduzione di Rocio Bolanos