Michele Brancale (ita, 2024) – ita/espa

Condussero lo straniero lontano
dai coltelli.
                  Poi abbandonandolo
a un letto di sbarre,
                                                  posero lance
appuntite davanti alla sua porta.
Venne la notte ed un calice amaro
d’attesa, d’insonnia e solitudine,
un calice di piombo.
                                                  Nel vagone
piombato lo straniero era in catene
con i due ladroni.
                                                  Lungo i binari
filo spinato e cavalli di frisia.
Innalzarono una croce d’acciaio
dai freni il fragore delle rotaie –
sul calvario delle icone spezzate.
Lì, quel giorno, appesero lo straniero.
 
Sotto piangeva sua madre
                                                  e un ragazzo.
 
 
 
 
Llevaron al extranjero lejos
de los cuchillos.
                  Luego lo abandonaron
en un lecho de barrotes,
                                                  colocaron lanzas
puntiagudas frente a su puerta.
Llegó la noche y un cáliz amargo
de espera, de insomnio y soledad,
un cáliz de plomo.
                                                  En el vagón
sumido estaba el extranjero encadenado
con los dos ladrones.
                                                  Por las vías
alambre de púas y caballos frisones.
Levantaron una cruz de acero
– de los frenos el estruendo de los rieles –
en el calvario de los íconos rotos.
Allí, aquel día, colgaron al extranjero.
 
Abajo lloraban su madre
                                                  y un niño.
 
 
 
 
 
 
Ma gli uomini imitano i rapaci?
Tra di loro, nelle banche, quotati
in borsa – cravatta sotto le fauci –
si mimetizzano blasé, azzimati,
sportivi, falchi, corvi e gli sparvieri:
insieme coi caimani imparentati
si nutrono del nido altrui. Poi, neri
nell’anima e sorridenti, salgono
in cima agli alberi, ai loro forzieri,
negli attici. Imitandoli colgono
l’occasione lupi e volpi, più veri
nel presentarsi. Dopo ti assalgono.
Avvoltoi che si fingono sinceri.
 
 
 
 
¿Pero imitan los hombres a las aves de rapiña?
Entre ellos, en los bancos, cotizando
en la bolsa – corbata bajo sus mandíbulas –
se camuflan hastiados, gallardos,
deportistas, halcones, cuervos y gavilanes:
junto con los caimanes emparentados
se alimentan de los nidos de otros. Luego, negros
de alma y sonrientes, suben
a las copas de los árboles, a sus arcas,
a los áticos. Imitándolos toman
la ocasión lobos y zorros, más verdaderos
en presentarse. Entonces te atacan.
Buitres que se fingen sinceros.
 
 
 
 
 
 
La voce del mondo si fa sentire
di sera, quando raggiunge le cose
con leggerezza, annunciando la forza
indifesa di chi non ha che un grido
da offrire per festa o per cedimento.
Quella voce arriva se non si chiude
la strada per essere umani ancora
 
 
 
 
La voz del mundo se hace notar
de noche, cuando llega a las cosas
con levedad, anunciando la fuerza
desprotegida de quien no tienen que un grito
para ofrecer por celebración o rendición.
Esa voz llega si uno no cierra
el camino para volver a ser humano.
 
da The Singing of Things di Michele Brancale (Gradiva Publications, 2024)
Traduzione di Rocìo Bolaños
 

 

Nel tempo frastagliato che viviamo, dove anche la poesia sembra in preda a un asfittico rinserrarsi verso un Io sbrecciato e sterile, il verso di Michele Brancale acquisisce una sua originale fisionomia, come mostrano i testi di “The Singing of Things”, raccolta apparsa per la traduzione in inglese di Irene Marchegiani e la prefazione di Plinio Perilli nelle Gradiva Publications. Tutto muove da un sentimento di empatia, di con-divisione della sofferenza altrui, di silenzioso abbraccio a coloro che voce non hanno, che futuro non vedono. Brancale, come già Luzi, come già Rebora o Turoldo, usa con acribia la scrittura poetica ponendosi quale osservatore “partigiano”, nell’accezione semantica più pertinente, quella cioè di uomo sensibile, che non teme di prendere posizione ricorrendo in diversi passaggi al richiamo di un uomo-Dio nel supplizio della croce, quella figura che è in mezzo a noi poiché assume su di sé le sembianze del migrante, dello straniero, del carcerato, del povero, del vagabondo, di ciò che allontaniamo, a cui restiamo tremendamente indifferenti. È ad essi che il poeta si rivolge, senza mezzi termini, a quella varia umanità dispersa, a quella diaspora di dolori e patimenti, comuni e diversi al tempo stesso, finiti “riuniti” in un cuore che si eleva e che ascolto e che solletica riflessioni, nella tregenda apatica dell’oggi. Nella seconda poesia è la dimensione verticale ad assurgere ad elemento dirimente, di rottura tra due opposte categorie umane, identificate ricorrendo al regno animale: anche qui, come peraltro nel primo testo, vi è la compresenza di bene e di male rappresentati dal mondo della ricchezza senza freni che si svuota di dignità nella menzogna, come uccelli parassiti e voraci. L’immagine è potente, non lascia nulla di incerto, di indeciso, ma in fondo la poesia, quando è vera, non è forse capace di percuotere le coscienze, di alimentare una nuova forma di umanità, oseremmo dire di umanesimo se ciò non apparisse in quest’epoca pretenzioso o quasi anacronistico? Quel pesante fardello di sofferenza e di scorno va scemando nel terzo testo, anch’esso ritmato da endecasillabi: ma ciò che resiste è l’orecchio attento alla “forza indifesa”, l’occhio che permane vigile in quell’attesa che già in Turoldo era prodromo di una gioiosa presenza, quelle mani aperte verso l’infinito “per essere umani ancora”. L’uomo, in buona sostanza, al centro di quest’opera che brilla di candore e di sferzante lucidità, acuta disamina dei mali endemici del nostro tempo verso cui però, anche un verso, può molto: sì, può renderci consapevoli, come sosteneva Terenzio, come dimostra Brancale, che nulla di ciò che è umano è a ciascuno di noi alieno.

Federico Migliorati