Materia verticale – Imperatrice Bruno

Nell’ultima opera poetica Materia verticale di Imperatrice Bruno (Nulla die, 2024, prefazione di Giancarlo Pontiggia, nota di lettura di Marco Sonzogni), poetessa campana classe 2001, si svela la moltitudine di cui l’anima dell’autrice è composta. Il vocabolario è cristiano (come ha osservato Giancarlo Pontiggia nella sua prefazione al libro), ma la sfera fisica e viscerale è tanto presente quanto quella spirituale.

I sensi abbracciano l’anima dell’altro, un “tu” sempre presente in queste liriche, senza entrarci in contrasto. Anzi, tale corrispondenza ci appare tanto naturale quanto lo è nella vita quotidiana degli amanti: «Voglio baciare la cosa con cui ama chi io amo» scrive la Bruno, esaltando i due aspetti che rendono l’amore una forza materiale e al tempo stesso spirituale.

Senza una suddivisione per sezioni, Materia verticale è aperto da alcuni brevissimi ma fortissimi versi che sanno di salmo biblico: «Che Dio non sa noi / che carne abitiamo, sa solo / cosa c’è nel nostro cuore.» scrive, compiendo per tutto il libro l’impresa di restituire dignità al nostro fisico, pieno di contraddizioni, luogo di peccato e sacralità. In particolare, la sacralità del corpo è spesso legata ad una figura creatrice, e se non c’è Dio c’è la madre. Nella prima metà del libro troviamo due poesie che possiamo ritenere in qualche modo legate da un destino tematico però opposto. Nella prima il tono è drammatico: anche la narratrice, riferendosi al soggetto principale, si immedesima nel suo pathos, derivato forse da un dramma di natura esistenziale, e «piango anch’io, urlo come una pazza». Il luogo in cui rifugiarsi dal dramma e trovare una pace assoluta è il vero luogo natio di ogni essere umano: «fratello mio, chi ha allargato il buco / del tuo cuore? / fratello mio, c’è su questa terra / un seno a cui tornare?» L’impressione che deriva da questa domanda finale non è positiva. È un’attesa sterile, come se questo «seno a cui tornare» non ci sia veramente, e così è diventato un riferimento per il benessere assoluto ma senza avere più nessun pari nella vita quotidiana. Nella poesia che segue subito dopo il riferimento alla madre è chiaro, e con essa è chiara la presenza di una creazione che dà la vita. Sono molto interessanti questi versi in particolare: «io l’ho sempre saputo / che lei è stato il punto punto per l’avanti e dopo Cristo», perché aprono alla riflessione su cosa significhi davvero la messa al mondo di un figlio. Se prima di nascere possiamo ritenerci solamente delle anime, esseri senza corpo né materia, allora possedere finalmente un corpo è il passaggio che ci rende effettivamente parti del corso della storia, e con esso della storia del mondo. Alla madre, qui, viene affidato il ruolo di Creatrice con la c minuscola. La poetessa, parlando di sua madre, porta volontariamente (o involontariamente) il lettore a fare un passaggio complesso nella sua semplicità: percepire la nascita di un figlio come un gesto profondamente divino, come un gesto, cioè, che Dio ha donato all’uomo. Anche noi, nella nostra miseria, abbiamo un frammento del Dio Creatore nella nostra carne. Continua la poetessa coi riferimenti alla sacralità del gesto parlando di miracolo, non a caso: «[…] senza il suo miracolo io non avrei avuto carne».

Il lettore viene continuamente attraversato, in una poesia dopo l’altra, dalla domanda “qual è il rapporto tra corpo e spirito?”. Senza la presunzione di darci una risposta netta, qui l’autrice ci spalanca al dramma della sua esistenza. «Bocca su bocca, fianco su fianco / mi apri, mi scuci / parli sereno col mio fiore; / sei Dio della mia terra / finalmente custodita // cieco ti conduce / il senso stesso della vita». Ma se nel rapporto con l’altro lo sguardo è rivolto al «senso stesso della vita», serve forse altro? Forse la riflessione della Bruno voleva proprio essere questa contraddizione: all’interno di un rapporto corporale, cercare l’anima dell’altro. Non c’è nulla di più umano. Questo concetto si intuisce anche nella poesia che subito segue: «Cerchi il mio segreto nel breve spazio / di un nostro incontro all’altro».

Nelle ultime poesie di Materia verticale lo sguardo della poetessa è rivolto all’infinito, ad un Amore infinito. Così quest’opera può apparirci davvero come una sorta di Commedia dantesca, in cui il protagonista-poeta, col suo sguardo profetico, vede pian piano svelarsi nella realtà gli elementi divini che a tutto hanno dato vita. L’interlocutore viene talmente santificato dalla poetessa che facciamo fatica a capire se sia un uomo oppure lo stesso Dio: «[…] tu così mi vivi / e io così so di volere / qualcosa, un nome, un fiore / una visione finale e iniziale / per cosa su cosa totale e / un dopo, rassegnato: mai più». Stupisce quel “una visione finale e iniziale” che sembra guardare all’oltre umano, al dopo-morte. Lo sguardo della poetessa ci fa rimanere senza fiato: attraverso il suo lavoro puntuale di contemplazione della realtà, riesce a individuare quegli elementi umani che sono annuncio del dopo. Dio non si vede soltanto attraverso una visione al futuro, ma anche al passato: «la forma della verità è un acquedotto pietroso / che esiste da prima della sete del popolo». Quella descritta non è nient’altro che una profezia, e l’elemento della sete del popolo non può che farci pensare alla Bibbia così come ai primi filosofi greci che già individuavano nel desiderio umano una natura insaziabile. L’autrice non fa salti concettuali al di sopra dell’essere umano, non dice nulla che non possa essere compreso, ma il suo agire è ugualmente straordinario perché parla col suo sguardo da giovane adulta del dramma dell’amore. «[…] la nostra ostinazione ad amare, ad aspettare / tutto il fiore del ramo. / E una volta lì tremare / per la fine che lenta a noi indietreggia, […]», non potremmo essere più fragili e nobili di così per ostinarci ad amare (un fiore del ramo, un elemento di grazia e creatura che nasce in noi come un dono terzo) malgrado la fine (dell’amore stesso, della vita) sia inevitabile.

Il libro di Imperatrice Bruno ci lascia osservare le sue, le nostre ferite scoperte e intanto ce le disinfetta. Perché non si può scappare dalla propria natura, questo è evidente nella sua poesia e nella poesia in generale che desidera arrivare all’essenza. Una natura umana, come ho già detto, piena di contraddizioni ma piena anche di miracoli, perché se è vero che siamo soggetti alle leggi del tempo, della morte, del dolore, abbiamo il dono dell’amore e della felicità. Fattori che ci vengono donati dall’esterno, da Dio se volete, il quale primo è Amore con la “a” maiuscola.

Caterina Golia

 
 
 
 
Io devo mettere al mondo che tu sei esistito,
che solitudine è un organo ben irrorato
che fa male e ha lo stesso senso dello sbattere
le mani per l’applauso; oltre noi non ci sono testimoni
di questa noce di luce intera che morirà sinonima
di molti e mai nessuno saprà il suo nome,e il proprio nome
in funzione della cosa già viva che è nata o voleva nascere
tenendo come piatto vuoto tutta l’attesa di un’offerta
preannunciata. Esisteranno le macchie sulla ceramica
a dire che doveva e non è venuto
che il riccio c’era e non si è mai schiuso
 
finiremo tutti nello scivolare delle pietre
e degli dèi, ci chiederanno traccia dei nostri polmoni
e delle erosioni chimiche e chiederanno ai nostri
figli se non sanno di essere figli di un orgasmo
e una volta scesi a valle ci sarà la conta testa
per testa. Ingovernabile moltitudine. Rinascerai allora.
 
 
 
 
 
 
Voglio baciare la cosa con cui ama chi io amo
che sia la lingua, lo scettro o il sonno delle cinque
di mattina e voglio che la vita primitiva della saliva proliferi
sulla pelle, che poi si asciughi, si increspi,
che sia muschio sulla guancia. Solo così vive
ciò che resta di noi oltre le generazioni e le bombe
all’uranio e la degradazione e la presenza che assorbe
il calore passeggero dei corpi ricordandoci che siamo
stelle lontane pronte ad aggirarsi senza nome,
minaccia nell’impossibile, nel nucleo contorto
delle doglie che dovranno e verranno, sì verranno,
a essere come, essere quando, la cosa continua
e risorge, essere ancora, essere stati.
 
 
 
 
 
 
Splende il tetto dell’ATAC.
I palazzi rosa fanno i romantici,
i vetri delle torrette rosse diteggiano
una scala in Sol minore. I cancelli blu, l’edera
folta coprono la parete come un pube:
l’ultimo senso è da sempre l’unico
per un treno di periferia.
 
L’uomo che ne scende non riconosce il cielo
oltre il silos di undici metri e mezzo,
oltre il silos di undici metri e mezzo
c’è una licenza edilizia accartocciata.
Undici metri e mezzo il prezzo della sua anima;
il bulbo è fisso nel cranio
il secolo è unilaterale.
Non c’è altro, non c’è un altro. Mai.
 
Un prete porta a braccio un cruciverba,
porta gli occhiali, un anello grosso
e le sopracciglia a spillo.
È lui quell’altro mezzo, lui il mezzo, siamo a
dodici: hanno sparato il sole dietro il silos.