Nominare la perdita, dare voce al non vissuto. Risemantizzare un presente negato, un corpo che cresce e langue nella deflagrazione della mancanza. Non conosce retorica la scrittura di Patrizia Baglione, è carne viva che sanguina, è vetro di carta che germoglia in un vuoto che fa male. È il corpo che si fa verbo e che in questo verbo poetico si scopre parola di pietra, voce che è tutto che ciò che resta alla madre, un corpo mutilo che cerca se stesso in un grembo vuoto. In Madre che resta (Independently published, 2024, con postfazione di Francesca del Moro) una coraggiosa Patrizia Baglione dà voce a un dolore che troppe volte appare tramortito dal luogo comune, sminuito dal pregiudizio, liquidato sommariamente come un pensiero passeggero per un bambino mai nato. Eppure cosa c’è in quel mai nato? Chi può dirci la rivelazione, l’attesa, la paura, l’emozione, lo sbigottimento per l’incerto e il desiderato, e ancora, chi può spiegarci i dubbi, le angosce e i sensi di colpa di chi ha il potere di negare o dare la vita, se non una madre posta di fronte al divario di dirsi o di negarsi, una madre che resta?
Patrizia Baglione con una penna che gronda lacrime di pietra dà voce alla disperazione di una madre che sperimenta il trauma dell’aborto. È una lingua di parole negate, una lingua di sillabe mute («Lingua / che si stacca dal palato / solo per farsi piccola / e nominarmi», p. 6) una lingua che annulla il primo richiamo d’amore, in quel nome di madre non pronunciato, che subisce la frattura e resta afona di fronte al vuoto e al dramma.
Baglione risemantizza la poesia della perdita con immagini di particolare intensità: i riferimenti cristologici (il verbo, la casa del padre, la croce, il cielo e l’acqua) che assurgono adesso ad una religione del dolore, vengono reinterpretati dall’autrice in un contesto in cui la frattura non è soltanto simbolica ma identitaria, una lacerazione che cronicizza il vuoto e condanna l’io dimidiato ad un perpetuo morire: «Voglio adottarmi intera / imparare a tremare, / vedermi unita, mai più separata / […] voglio smettere di morire / un po’ alla volta» (p.23). Eppure c’è la ricerca di un perdono, in questo libello, il bisogno di appartenersi nuovamente, nell’aspetto di un viso che pure sopravvive e rassomiglia, c’è un’assenza che tuttavia è presenza nella mancanza: «I figli morti sono lì ad aspettare. // Ginocchia basse/ chiedono ai padri/ di lasciarsi fiorire» (p.67).
A proposito della maternità, in una delle sue ultime interviste, alla domanda «quanto c’è di lei madre nelle sue poesie?», Alda Merini ha dichiarato: «Tutta la disperazione di averli persi e tutta la felicità di averli avuti dentro di me. Grazie alla maternità la donna non ha paura di morire. Un poeta dovrebbe vivere con la morte vicina: la morte è gioia, è cammino di conoscenza». E citando una sua poesia, la poetessa dei Navigli, nella stessa intervista aggiunge: «I ghiacciai sono tutte le lacrime rapprese delle madri su cui vanno gli sciatori, queste lacrime non si sono mai sciolte». In Madre che resta c’è tutta la disperazione di una donna che sente di aver perso il proprio figlio e tutto l’amore che una madre può provare. Patrizia Baglione è poeta che «vive con la morte vicina», ed è poeta vera, perché dal suo canto spezzato, dalla morte con cui l’io lirico coesiste, si alza ancora una voce di madre, una voce d’amore.
Laura D’Angelo
Chiedo in modo semplice
di esser figlia fra le rovine,
madre che supplica
l’aria che respira;
attenta alla bocca
intrisa di luna
moltiplicando il verbo
all’infinito.
Voglio adottarmi intera
imparare a tremare,
vedermi unita, mai più separata
un pezzo a destra, l’altro,
a sinistra — combattuta
pure di me stessa.
Accogliere la paura,
fiorire in trasparenza
voglio smettere di morire
un po’ alla volta.
Esiste un tempo in cui la morte
abbraccia attenta pure i vivi.
Col passo levigato come marmo,
essa ci appartiene — ci è madre.
Lo sai. C’è stato un tempo in cui
anch’io avrei potuto esserlo.
Ti immagini, figlio caro,
con quali braccia, occhi,
gambe, cuore, io lo sarei stata.