L’isola dei topi – Alberto Bertoni


L'isola dei topi - Alberto Bertoni

L’isola dei topi, Alberto Bertoni (Einaudi 2021).

Le sistoli e le diastoli che fanno pulsare questo libro sono il ricordo e la dimenticanza, che si alternano fin dalla prima poesia in una dialettica che non sembra poter trovare sintesi. C’è una pulsione a ricordare e una a dimenticare. C’è una volontà di tagliare legami e una di rafforzarli, di difenderli dal tempo. In questo percorso, movimentato dalla presenza di animali reali e simbolici – uccelli, gatti, cavalli, insetti -, si attraversano luoghi e persone come intravisti da una porta di casa che non si sa se tenere aperta o chiudere una volta per tutte. La voce che ci conduce vorrebbe essere distaccata, disprezzare la nostalgia, salvo riaccendersi improvvisamente per passioni non sopite (in primis le corse di trotto) o per antiche e moderne idiosincrasie.

 

Con queste parole la quarta di copertina de L’isola dei topo introduce l’ultimo edito di Alberto Bertoni (Einaudi, 2021). Un libro ampio e complesso che a una facile leggibilità (che non significa superficialità) fa corrispondere un non facile approccio.

Alberto Bertoni, critico fa i più rinomati in Italia e poeta di lungo corso, ci pone immediatamente di fronte alla metafora portante: l’isola dei topi. Questo titolo, e la fortissima presenza simbolica del topo nell’opera, non possono che far tornare in mente il montaliano Penso / che forse non mi leggi più. Ma ora / cui sai tutto di me, / della mia prigionia e del mio dopo; / ora sai che non può nascere l’aquila / dal topo, o anche, in accordo con una passionale dolcezza che a tratti emerge dal fondo della parola (pur con le dovute differenze, che si vedranno), il forse / ti salva un amuleto che tu tieni / vicino alla matita delle labbra, / al piumino, alla lima: / un topo bianco, / d’avorio; e così esisti! sempre di Montale.

Ma i riferimenti potenzialmente non si sprecano: da Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez a Uomini e topi di John Steinbeck a La peste di Albert Camus. In Camus in particolare va ricordato che il topo, intrecciandosi sottilmente al tema del nazismo, è il simbolo di una peste che ucciderà moltissime persone. Tema questo che torna in Bertoni, si veda l’unico pezzo in prosa che conclude la raccolta:

Cosí, mentre avanzo, penso che se durante la mia traversata di deserto il capo-topo, lo stratega, il pater familias chiamasse le sue truppe a raccolta e istigasse il mondo-topo all’attacco, non ci sarebbe storia. Il consorzio umano, la superficie superna, il nostro avamposto di civiltà cadrebbero all’istante e – al modo del fumetto Maus di Art Spiegelman – la topizzazione del mondo diventerebbe in un amen cosa fatta, come dopo un Blitzkrieg nazista.

 

Brano che non può non rimandare allo straordinario Animal farm di Orwell che, a parere di chi scrive, percorre sotterraneamente buona parte de L’isola dei topi. Perché seppure Bertoni si allontana nettamente dall’isola di Utopia di Thomas More, inevitabilmente usa gli animali (topi ma non solo) per descrivere la situazione umana. Situazione che dalla storia intima si allarga alla storia sociale e umana citando fra gli altri Greta Thunberg:

 
Ma tu dimmi, Esther,
cosa vorranno fare
delle bestie salvate
le tue amiche ultra vegane
quando mai raggiungeranno
il controllo del potere
sotto le alate bandiere
di Greta Thunberg?
 
[…]  
Ma se mai cominciassero col loro
insaziabile appetito
queste bestie per vendetta contro
il crudele animale uomo
a divorarvi poco a poco
prediligendo l’amabile
e quasi per niente
proteinico brodo
ottenuto con buglione opportuno
di essenze vegetali e delle
giammai procaci carni
di voi vegane stesse?
 
[…]  
Lo ripeto: non
venga mai quel giorno
in cui una gang di porci
neri, di cinta, cresciuti coi piú
maniacali accorgimenti del nuovo
pensiero selvaggio,
riesca ad accerchiarmi contro
il muro cieco del garage di casa
pezzetto su pezzetto banchettando
col mio corpo
 
 

Guardare, osservare, chiedersi cosa sia l’uomo attraverso la metafora dell’animale che non di rado è rapporto con esso, è proiezione in esso, ci restituisce un Bertoni particolarmente organico che in sette sezioni (Alberi e bestie, Case, Milieu, Avvistamenti, Brindisi e dediche, Was war, Canalchiaro) fondamentalmente si interroga sulla posizione dell’essere umano. Dal suo rapporto con se stesso in relazione alla propria memoria (tema caro a Bertoni, questo dell’Alzheimer) con una prima identificazione con l’animale (utile a trovare se stessi in quanto identità perduta, dimenticata, in Alberi e bestie), all’interrogazione sulle cose, sulla relazione emotiva ed affettiva con esse che parla di sé, cose che compongono anche l’uomo con uno stupendo riferimento a Sereni (in Case), all’osservazione degli esseri umani in sé o in contesti aperti e pubblici (in Milieu), a osservazioni da lontano, come da finestre socchiuse, dove il tentativo della distanza misura la tenera passionalità coinvolta dell’io (in Avvistamenti), a vere e proprie dediche ad amici e poeti (tra gli altri a Ezio Raimondi, Gregorio Scalise, Giancarlo Sissa, Francesco Guccini, Giancarlo Pontiggia, Maurizio Cucchi, Massimo Onofri, Nanni Balestrini, in Brindisi e dediche), a un’introspettiva su se stesso e la propria storia, quel che si trattiene con la sottile metafora del topo o piccione, non è chiaro che non può non rimandare al succitato non può nascere l’aquila / dal topo montaliano (in Was war), all’ultimo brano esplicativo (in Canalchiaro).

Una domanda che a 360 gradi percorre l’uomo dalla propria identità, la sua perdita attraverso l’obnubilamento della memoria, che interseca la storia recente (il nazismo appare in più punti, si legga ad esempio Ad Auschwitz c’era la neve o Passeggiata che dall’Homo sapiens arriva al dove spietati bimbi / con facce da nazisti / pescano in un amen due pesci / e gli spaccano la testa), le storie degli amici, delle persone osservate in Romagna e altre zone, fino a tornare a un sé forte di una metafora (l’animale) che non è mai definizione o risposta, ma dubbio che toglie la presunzione delle certezze.

 

Alberto Bertoni consegna un libro di versi luminosissimi che bene inizia con il problema della memoria, dell’Alzheimer, per spiegare che viviamo tutti in un mondo precario, bellissimo ma fragile (Una delle prima cose che farò /quando tutt’e due saremo alberi / sarà dimenticarti […] Saprò dimenticarti […] La memoria – dev’essermi anche lei scivolata via / dispersa in qualche fosso […] Io resto qui / fermo al mio distributore / a respirare salsedine / in tutta una polvere di pioppi / e di ombre campagnole, / a scavare anche oggi le mie tane // Queste implacabili memorie). Dove basta poco a ribaltare ogni sicurezza (Lasciate libero il paesaggio, voi / ch’entrate cercando / la chiave universale del linguaggio […] Dalle cose, ho divorziato […] Per sicurezza me li porto dietro, / oggi, i miei strumenti umani [….] Ormai lontanissimi i contorni, / da una vita superate le distanze / e approdate nei cortili le cornacchie […] Sapersi destinati come tutti / a una distanza senza misura). La metafora dell’animale, del topo, che affonda in una storia letteraria importante toglie l’antropocentrismo senza cercare di sfatarlo, perché sarebbe impossibile. Ma anche a questo serve la poesia: far vedere da un punto di vista differente quel profondissimo poco che siamo.

 
[…] Mi sono insaponato,
ho lavorato di rasoio
e alla fine ho ridato faccia d’uomo
al topo color cenere che sono,
i baffi vibratili sul naso,
gli occhi due buchi senza fondo
e le labbra aperte sugli spigoli
della chiostra di dentini dove esplodo
il mio squittio di primo buongiorno
[…]  
 

Tale capacità di non rispondere ma risolvere sfiora infine una riflessione che al lettore attento non sfuggirà come fondamentale, anche se apparentemente marginale:

 
Non so perché in francese
topo e sorriso quasi coincidono
souris, sourire
[…]  
 

Interrogazione (in Topi a Salonicco) che ha una sua chiusa puntuale e che affonda nel magma del problema umano:

 
[…] Mi piace immaginarli
nel vibrare sciolto
di ogni muscolo del corpo
circospetto ma pronto
al piú rapido scatto
faccia a faccia
prima o dopo
il nostro ego scosso
e loro
 
 

Il nostro ego è quindi la finestra opaca da cui osserviamo il mondo e gli altri privilegiando il riflesso di noi stessi. Ma smarrendo per un attimo la memoria della nostra identità ecco che, anche a fronte dell’incontestabilità della storia trascorsa (possiamo far finta che non sia accaduta, ma resta) e della letteratura, non possiamo non renderci conto dell’esilità del velo che ci compone, e sui cui camminiamo in questa esistenza.

Velo che ha un suo significato altrettanto incontestabile nella dolcezza che provoca all’approccio, al suo essere vissuto, osservato, ma che non può essere assunto a pilastro inespugnabile.

 
Me lo fanno pensare
i suoi baffi a spirale,
e il nome comune, la solitudine, la rabbia
di un dio qualunque
fra lo stomaco e la faccia
 
 

Un libro dai versi importanti e dal percorso su cui vale molto la pena soffermarsi.

 

Alessandro Canzian

 
 
 
 
Un mercato di Ferragosto
 
Gli oggetti sono defunti,
il vaso perde fiori
e il cane mangia scarti
come il suo padrone
 
La chitarra non ha suono
e il mondo è malridotto
qui, nel mercato di Ferragosto
dove al bordo di me stesso
mi accampo, esito, trascorro
fra un pensiero buono
e un altro disastroso
intanto che mi muovo
dal banco dei formaggi al monticciolo
di cipolle rosa, immergo
la tensione del mio corpo
nel girarrosto del pollame
senza piú nessuno
sguardo luminoso
 
E lí so solo che non voglio
non voglio e non sono
 
 
 
 
 
 
Cose
 
Non è vero che vengono
velocemente dimenticate
 
Che si sciolgono come neve al sole
senza lasciare orme senza mai piú
essere sognate (o narrate)
 
Che sono puri fiocchi di fuliggine,
non portano da nessuna
parte e vivono come tatuaggi
di cicatrici lontane
 
Come fantasmi, come multipli di zero,
come essenze del nulla, del non
essere che saremo
presto
 
Vili materie e tracce
tutto sommato umane