Caro Roberto,
ho letto la tua recensione al nuovo libro di Stefano Dal Bianco (La lettura, 10.3.2024) e mi vengono in mente due cose. Una si riferisce alla fine del tuo pezzo, quando dici che “il solo classicismo legittimo è quello capace di significare il proprio contrario”.
Ma il grande, vero classicismo, ha sempre significato il proprio contrario, ovvero un’apertura assoluta, non ai libri, ma alla vita, e alla morte (Orazio, Petrarca, Dante, Foscolo, Leopardi, Pascoli).
Non si combatte nudi, si hanno delle corazze, più o meno divine. Come se per dire il più possibile, dire tutto, qualcosa di bruciante per le mani e insostenibile per gli occhi, occorresse proteggersi, difendersi. Ridursi tra le quattro mura de “la camera de lo cuore” di Dante, o della “cameretta che già fosti un porto” di Petrarca, o nella stufa di Cartesio (io non vedo tutta questa differenza tra poesia e pensiero, si tratta sempre di illuminazioni).
Ci vuole un luogo chiuso, buio, per tenere la luce. Come la camera ottica o come il fuoco dei paleolitici in quella sua urna portatile.
La seconda è sulla storia, di cui parli all’inizio. So che non pensi che la poesia debba sempre aver a che fare direttamente con la storia, e penso che tu sia d’accordo con Pascoli quando dice che non esiste la “poesia civile”, ma ogni vera poesia è poesia civile, anche quella più intima e apparentemente fuori dalla storia.
E sì, certo, si potrebbe dire: è un momento terribile, siamo vicini all’autodistruzione, è un momento unico, mai successo nella storia, come si può, anche in poesia, astrarsi dalla storia, non dire la terribilità di questo momento? Come si può, come ha fatto Dal Bianco, scrivere un libro che si intitola “Paradiso”?
Intanto io penso che anche ogni momento del passato è stato terribile, è terribile ogni nostro giorno, o istante. Come dice Omar Khayyam: “l’aria che tu inspiri, non sai se la butterai fuori”. Oggi possiamo distruggere noi il pianeta (prima poteva distruggerlo un asteroide: interessante che oggi potremmo invece difenderlo, da un asteroide) ma abbiamo visto bene come gridare e strapparsi i capelli serva a poco. Può servire invece (e questo è il terreno che tu dici che io avrei cominciato a dissodare) incontrare intimamente la natura, sentire quanto è importante per noi, non solo perché distruggendola distruggiamo noi stessi, ma perché senza di lei stiamo male (e le città e l’urbanesimo novecentesco ce l’hanno insegnato), e fare sentire questo incontro agli altri, fare entrare anche gli altri dentro questo nuovo dialogo. Dare anche agli altri le parole per questo incontro.
Non che la natura ci dia la felicità, ma accanto a lei stiamo meno male, cioè stiamo meglio.
Se la letteratura, le arti, fanno capire questo, fanno questa inversione, non solo non sarebbe “idillio”, solipsismo, ma rapporto massimo con la storia. Sarebbe anche cambiarla la storia. E in meglio. E non dire solo le brutture, come qualcuno fa, facendo un’arte brutta.
E poi natura e storia non sono più in opposizione. La natura ormai ingloba la storia, la storia sarebbe la terza fase della sua evoluzione. Parlare di natura vuol dire parlare di tutte e tre le fasi: evoluzione fisica, evoluzione biologica, evoluzione tecnica, ovvero la storia umana.
La natura non è più meccanica come ai tempi di Leopardi, è mente, come aveva capito Pascoli, e ha capito la fisica, anche. La natura è la vera storia, con cui la nostra storia si deve confrontare.
Claudio