L’eterna estate di Dylan Thomas oltre la costa toscana: un confronto inesauribile

All’interno della rubrica di Laboratori Poesia che intende promuovere e ampliare online il dibattito delle migliori riviste letterarie che si occupano di Poesia oggi in attività, proponiamo l’Editoriale di Matteo Bianchi e Tommaso Di Dio su Dylan Thomas uscito nel volume num. 5 di “Laboratori critici” a luglio 2024. Numero che fa seguito a un lungo approfondimento sul poeta curato da Laboratori Poesia e le edizioni uscite quest’anno.

La Redazione


 

EDITORIALE DI MATTEO BIANCHI E TOMMASO DI DIO
da “Laboratori critici” n. 5

Il vaporetto si avvicina all’Elba e la costeggia per un lungo tratto, dopo aver superato la Palomaia e l’isola dei Topi – non quella immaginata da Bertoni per la Bianca Einaudi. La costa alta e giallastra, ricoperta da un velo verde, dirupa sul mare di un blu denso, spudorato, e in alcuni punti è chiazzata di rosso: l’ematite degli Etruschi, il colore toscano. Da questa parte la penisola, splendente, mostra le spalle, oramai inaccessibile; poi la linea del mare molla la presa e si addolcisce entrando in una vasta insenatura sciogliendosi in frange di spuma. Portoferraio appare sul promontorio, in una scenografia che si direbbe studiata: le case che scendono quasi sull’orlo della banchina, tra i moli protesi e i fari, la vita intensa del porto, le mura che cingono la città ai fianchi e poi salgono a raggiungere i forti della Stella e Falcone, da una parte, tra i pini marittimi, spuntano le ciminiere superstiti degli altiforni in abbandono.
Si sbarca. Il capoluogo è accogliente, diviso da due anime sommerse, l’una medicea e l’altra napoleonica: ha grandi piazze ombrate da piante frondose, nonostante sia una zona industriale ab antiquo.
Le miniere sono ancora all’aperto, specie di cave dove il materiale veniva estratto scalfendo la montagna, con il piccone. La roccia è rossa e brilla di pagliuzze gialle. Ma a Rio Marina non c’è soltanto l’estrazione forzata, la forza di quel rosso: ci sono bellezza inconsapevole e poesia senza parametri. Qui è stato Dylan Thomas, qui ha vissuto per un mese intero, qui a bevuto Ansonica e Vermentino in compagnia di minatori e pescatori. Qui si è sentito in armonia con la natura: «The force that through the green fuse drives the flowers / Drives my green age… » («la forza che su per la miccia verde fa esplodere il fiore / Fa esplodere la mia verde stagione… »). Qui è venuto Luigi Berti a cercare l’amico: «Ma ora chi ci risponderà? / Le luci che non vedi, le vie su cui non passi, le pietre rosse, la casa / sul mare di Rio, l’anima appoggiata al davanzale e il vino fragrante / nel boccale per te, la nobile fronte e il grande albero / della vita appeso a tutte le finestre, / le ginestre che discutono col vento…». Inaugurare l’editoriale del quinto numero di “Laboratori critici” con la trascrizione enfatica dell’incontro fortuito tra Berti e Thomas all’isola d’Elba, ci è sembrato doveroso per rimarcare la vocazione del nostro collettivo editoriale e di un comitato scientifico che affiancano, uscita dopo uscita, il punto di vista di penne sapienti alla ricerca convincente di altre in formazione. E se il volume che per lo scorso Pordenonelegge avevamo dedicato alla traduzione heaneiana di Giovanni Pascoli aveva funto da “apripista”, Given Notes. Per Seamus Heaney, queste pagine ancora più corali lo confermano, specie dopo il momento di confronto vis a vis durante Elba Book Festival, lo scorso 18 luglio, proprio nella piazza Matteotti del borgo medievale di Rio.

Se hai trovato la nave che recava i globi dei cocomeri
e il ronzio della vespa sul seme nero al fuoco
dell’acetilene, s’è fatto il piccolo il mondo e sul petto
degli scogli son gocciate foglie di nepitella e squame di delfini.
Ma i nodi del dubbio stringono alle voci e sulle rade
tutte le attese ci han portato allo sciabordar della risacca.
Siam legati alla terra con muri rivolti al mare e piedi
impazienti si posano dov’era veloce il battito della nostra nuotata.
Perché tu possa baciare altri orizzonti ove il vento
spumeggia non è vano rotar con il cieco raggio
della stella marina. Più dolce del fondale verde, l’alga
arriva ai fuochi della notte e il platano riese
al nostro letto minerale…

Le “occasioni” e le circostanze di matrice montaliana che diventano le “epifanie” di luziana memoria, e che per puro orgoglio Berti attribuiva direttamente a Joyce, sono spesso l’incipit dei suoi versi: se in Elegia elbana (Istituto Editoriale Italiano, 1955) risuona il Requiem (pp. 85-91) per l’amico deceduto nel 1953, a trentanove anni, all’ospedale St. Vincent’s di Nuova York, «fulminato da diciotto whisky» secondo le cronache dell’epoca (e non da una polmonite lungamente trascurata), un omaggio a Thomas sono le poesie che Berti ha raccolto, sempre per l’Istituto Editoriale Italiano, nel volume Le torri dei giorni (1960), che ha una copertina di un giallo bruciato, lo stesso che copriva le Poesie giovanili di Thomas, uscite nel 1958, nella versione di Roberto Sanesi. Sull’isola d’Elba rimane per diciannove giorni: era giunto da Firenze dove si era annoiato terribilmente con i giovani intellettuali del capoluogo toscano, pure a casa Carena, appellandoli «un gruppo scoraggiante». Aveva seguito il Berti, con il quale aveva istituito spontaneamente una confidenza artistica. E tutt’ora c’è chi come Massimo Trombi, libraio e depositario della memoria delle sparute comunità elbane, rammenta che nel villaggio di case erte di scale di pietra, persino i cani si fermavano agli angoli delle salite quando passava il poeta Dylan Thomas, «con la sua testa di Bacco e i suoi panni a due tinte, verdi i calzoni e rosa la camicia… passando sulle creste con un berretto bianco e la camicia lunga fuori dai pantaloni, sembrava un arcivescovo».

Leggende, dicerie e doverose conferme
È indubbio che per comporre il bardo di Swansea seguisse vie sotterranee e irrintracciabili, sembrando persino un depositario dei canoni infallibili del gusto di allora: come argomenta Federico Mazzocchi riguardo The Map of Love: Verse and Prose (1939), con l’arguta invenzione, con la congerie di mitologie private e di prodigiose sconnessioni della vita sociale, la prosa dello scrittore si calava in acque densissime, mentre la poesia aspettava lo scatto di meraviglia proprio dell’artigiano di mosaici. La poesia di Thomas, sostanzialmente, era frutto di un isolamento, di una psicologia misticheggiante, di una storia umana e di una dialettica irriducibile, il cui segreto era una sorta di partecipazione universale.
Franco Buffoni, nell’excursus iniziale, sottolinea il suo ritorno costante al ciclo naturale e alla costruzione per ictus di un ritmo creaturale; infatti i tre inediti di Andrea Cozzarini selezionati da Roberto Cescon ritrovano un “teatro naturale” per metafore animali caro agli esordi del poeta gallese.
Thomas possedeva una facilità – nonostante le difficoltà della lingua – con la quale tanto rapidamente stabiliva, negli ambienti più disparati, l’intimità delle sue lunghe conversazioni sulla vita e sull’arte, così anche con Berti e Bigongiari, nelle quali anche i presuntuosi o i pedanti abbassavano lo sguardo, avvertendo in lui una forza di giudizio e di intuizione che li alterava, e li dominava. La ricchezza o l’ingiustizia quotidiane, il colore e la molteplicità della vita stessa, i problemi umani nelle risultanti più svariate lo colpivano, in ogni loro manifestazione; per quanto quello che più lo amareggiava fosse il notare la sofferenza degli altri, e, soprattutto, degli umili, dei meno abbienti, forse proprio per questo più vivi e «più caldi di umanità». Diceva «In Italy I am a communist», appunto all’Elba, per il fatto di trovarsi a contatto nell’aspra estate del 1947 con i lati più estremi della povertà sortita dalla guerra, quella dei marinai sbarcati o dei minatori riesi: una miseria fiera e, talvolta, chiusa in sé e nei rancori perché non chiedeva, e, tal altra, perché non accettava altro che le venisse dato da pari a pari. Dunque, per quanto Thomas rimanesse poeta anche nella prosa, è proprio in quest’ultima che si avverte la corrente lirica che ribolle e porta altrove, oltre il sogno, ossia alla foga dei sogni inenarrabili, a veicoli per destinazione ignota. Parallelamente a Foscolo, ma diversamente da lui, Thomas tendeva al romanzo e, come lui, lasciò il suo ininterrotto.
E più che a causa del travaglio meticoloso o di un istinto minuto, fu il terreno minato davanti a sé a ostacolarlo; a tal punto che Vernon Watkins, in un ritratto sulla scomparsa dell’amico Dylan, motivò che finita la seconda guerra mondiale – per lui inabile alle fatiche belliche – la «sua guerra personale» continuasse.
Divenuto popolarissimo, poiché teneva reading in numerose università statunitensi, durante un ricevimento in suo onore e interrompendo improvvisamente il suo discorso, Thomas annunciò: «Primo, sono un gallese. Secondo, sono un ubriaco, e terzo, sono un amante del genere umano, specialmente delle donne». Un silenzio di tomba, si racconta, che fosse calato nella sala a causa della balzana dichiarazione, proprio perché nessuno aveva capito la genuinità di tale annuncio e che, parodiando l’introduzione al For Lancelot Andrewes (1929) di T. S. Eliot, lo spirito caustico del bardo intendeva ribellarsi alla tradizione anglofona. A tal proposito, è stato coinvolto nel numero in questione Luca Guerneri con la sua “freschissima” tesi di dottorato per il Department of English Language and Literature dell’University College London, che esplora le tracce stilistiche e contenutistiche dell’opera thomasiana nella produzione della New Generation Poetry, ovvero dei contemporanei inglesi non amati dall’accademia, così Michael Donaghy, Lavinia Greenlaw, Michael Hofmann e Don Paterson. Per ragioni analoghe, alla nuova edizione dei suoi versi Thomas aveva aggiunto un prologo in cui affermava rivolto al lettore: «Guarda, io costruisco la mia arca muggente!» Stravagante che potesse apparire dal pulpito il suo comportamento di farceur, quello di un altissimo poeta che, al pari di Wilde, aveva vissuto per il proprio genio; un genio, in questa situazione, tragicamente umano.
In copertina, grazie al contributo della Fondazione Magnani Rocca, situata in provincia di Parma, ci è stata concessa la riproduzione di un manoscritto inedito di Dylan Thomas; una missiva mai pubblicata prima e indirizzata proprio al mecenate Luigi Magnani, informalmente “Gino”, per reperire un riparo in Italia, per sé, la moglie Caitlin e i figli piccoli. In quarta, ma a chiasmo, spicca uno scatto del distico fotografico Zemrude, tratto dalla serie in bianco e nero In absentia (2010) dell’elbano Andrea Lunghi, capace di spingere lo sguardo a liberarsi della nozionistica storica per scendere sino all’anima dei bastioni medicei di Portoferraio, lasciando l’occhio del fruitore colare a picco nei vuoti assordanti delle torri in pietra e calcina, le medesime a guardia dei giorni care a Berti. Invece l’inserto che segue, curato da Paolo Fabrizio Iacuzzi, intende riproporre le undici traduzioni che Piero Bigongiari dedicò alle poesie di Thomas a seguito del suo soggiorno fiorentino, alle quali l’esperto curatore ne ha aggiunta una dodicesima sconosciuta, una versione inedita di To Others Than You (1939), trascritta qui per la prima volta. Inoltre, grazie anche alle dritte della docente Carmen Gallo e della sua laureanda magistrale Martina Bocci, con l’editore Alessandro Canzian e la ricercatrice Marta Fabrizzi, curatrice del corposo volume Carteggio 1931-1946. La nascita di “Inventario” (Società Editrice Fiorentina, 2023), ci siamo accaniti sul rapporto linguistico tra Thomas e Berti, che pareva esaurirsi a una corrispondenza di bevute, fumate di tabacco e poco altro.

Dopo la consultazione approfondita del Fondo “Luigi Berti”, all’interno del Gabinetto Vieusseux, siamo giunti a una conclusione degna di nota: si tratta a tutti gli effetti di un falso storico, poiché non esiste traccia alcuna delle traduzioni di Berti dei versi di Thomas, nonostante tutte le note biografiche affermino il contrario, compresa quella redatta dalla stessa Fabrizzi per il Sistema Informativo Unificato delle Soprintendenze Archivistiche – SIUSA. D’altronde, non se ne fa cenno nell’epistolario del poeta gallese, come avevano confermato nella commemorazione del 2014, a cinquant’anni dalla scomparsa dell’intellettuale riese, a Portoferraio, sia l’elbano Gianfranco Vanagolli sia Fausto Ciompi, già ordinario all’Università di Pisa. Non se ne fa cenno nemmeno nella storica “Inventario”, la rivista fondata da Berti e Renato Poggioli proprio nel ‘46, che abbiamo sfogliato da cima a fondo in archivio. A nostro avviso, e per un fraintendimento dato proprio dalla sopravvalutazione della vacanza isolana dei due letterati, il Thomas S. Eliot che Berti traduceva largamente – sempre dal francese e sempre su versioni di servizio, conoscendo l’inglese a giudizio anche di Montale e di Pavese – sarebbe diventato, di articolo in articolo, il Dylan Thomas tanto elogiato di persona. In sostanza, i giornali del tempo ebbero la meglio sul loro effettivo lascito lirico. Vanagolli, tra l’altro, ha individuato la lettera all’amica Margaret Taylor, datata 1949, in cui Thomas ammetteva di volere rinunciare al rapporto con Berti (a distanza) poiché non c’era corrispondenza linguistica, bensì soltanto una «simpatia esteriore» (vd. G. Vanagolli, Luigi Berti in Profili di autori elbani contemporanei, Le Opere e i Giorni, Livorno 2008).

Lasciti e intrecci intellettuali
La poesia di Thomas, per la sua forza visionaria e potenza linguistica, si è intrecciata alla poesia italiana fin dal suo primo approdo. Non c’è poeta, infatti, almeno dagli anni ‘30 in poi, che non abbia meditato la sua poesia, non abbia assorbito la sua forza e persino l’abbia ritrovata nella forma più estrema possibile della relazione letteraria, ovvero la forma del totale rifiuto. Per restare solo sulle maggiori interpretazioni della sua poesia, c’è un Thomas di Eugenio Montale e un Thomas di Alfredo Giuliani, un Thomas di Roberto Sanesi e uno di Ariodante Marianni.  Sebbene tutti questi Thomas nascano dal medesimo vortice originale, attraverso la macchina della traduzione sono divenuti qualcosa d’altro, perché i poeti traduttori hanno trovato nella lingua di Thomas ragioni di esplorazione e germinazione completamente differenti. La grandezza di un poeta sta proprio qui: moltiplicare le potenzialità di divenire altro, restando in ogni dove e in ogni tempo fedele a un’unicità inscalfibile. E così sono tutti questi Thomas: ciascuno diverso dall’altro, ma ogni testo tradotto irradia il nòcciolo di una medesima forza. Lo stile dei Thomas è talmente ricco di armoniche e possibilità traduttorie e tocca a un punto talmente alto di inventività così tanti livelli della lingua (dal musicale al sintattico, dalle immagini al narrativo, al metaforico) che nessuna traduzione può esaurirle tutte e in un modo o in un altro accentuerà solo alcuni degli aspetti della sua scrittura.
Questa eredità esponenziale e moltiplicatoria della scrittura di Thomas ha una sua forte presenza anche nella poesia italiana degli ultimi cinquant’anni. Non è certo un caso che si siano ritrovati nella sua parola anche due poeti fra loro diversissimi, entrambi in qualche modo protagonisti della poesia contemporanea italiana: Alessandro Ceni e Gabriele Frasca. Potremmo tranquillamente posizionare le loro scritture su due poli opposti di un ideale (e certo semplificatoria) teoria della poesia contemporanea: da una parte, un autore fra i più elusivi della nostra tradizione (Ceni) che pone al centro della sua scrittura una sorta di vuoto permanente e irrazionale che pure guida ciecamente una concatenazione necessaria e implacabile delle immagini; dall’altro, invece, una delle scritture che più in Italia mostra una sorta di furia del logos, che più di altre con una sperimentazione metrica originalissima e instancabile ha creato un sistema di tensione fra scrittura e voce, fra parola letta e parola detta. È come se entrambi sviluppassero potenzialità presenti della poesia di Thomas e così le loro traduzioni e persino la loro stessa poesia è anche una sorta di interpretazione critica della poesia di Thomas. Ceni accende la forza bardica di Thomas, l’inarrestabile energia della concatenazione delle immagini che sembra sfuggire a ogni possibilità di controllo e che invece funziona perfettamente in un regime però di continuo eccesso, di permanente stato di sovrabbondanza di possibili; è come se mostrasse l’Ottocento dentro la sua poesia e, dietro questo, la dimensione folklorica, celtica, pagana. Dall’altro, invece, Frasca assorbe e irradia nella sua il lato più secentista della poesia di Thomas, che difficilmente emerge nelle traduzioni, ovvero il suo essere occupata completamente dalla devozione al problema della forma e alla regolarità di accenti e ritorni e inventività strofiche e traduce tutto questo nel problema della voce e del suo canto assorbito e riemanato dalla lettera. È come se Ceni facesse riemergere il lato precristiano della poesia di Thomas, il suo cedere alle forze di una natura senza volto, animistica e in perpetuo moto; Frasca invece colloca il suo Thomas al centro di una tensione fra libertà melodica e freno armonico, fra riforma e controriforma, potremmo dire, fra sprigionamento del suono e suo incatenamento in una forma che non dà tregua.
Di certo, la poesia di Thomas e la sua eredità non hanno ancora finito di ispirare e di contribuire alla metamorfosi della poesia italiana. Ne è una dimostrazione il fatto che allo scoccare del settantesimo anno dalla sua morte, il bardo di Swansea non ha ancora smesso di suscitare desiderio di traduzioni, desiderio di far risuonare la sua poesia nello spazio della vivo della tradizione della poesia che si fa, come argomentano esaustivamente nelle rispettive panoramiche sia Martina Bocci, a seguito di una tesi specifica di laurea magistrale, sia Claudia Mirrione focalizzandosi sull’indagine di alcuni nati tra gli ‘80 e i ‘90, quali Maria Borio, Giovanni Ibello e Mattia Tarantino.

In conclusione, la versione di To Others Than You, a cura dello stesso Di Dio, ma non inclusa nel recente Visione e preghiera. Poesie scelte (Giometti&Antonello, 2024), intende affiancarsi volutamente a quella di Bigongiari, aggiungendo dei nessi narrativi tra le immagini originarie che il poeta pisano non aveva rilevato.

Agli altri ma non a te
 
Amico da nemico ti sfido a venire fuori.
 
Tu, con una moneta falsa nella tasca dell’orbita,
tu, amico mio, che te ne sta lì con un’aria da vincitore
che mi hai mollato una bugia quando sfacciatamente
hai guardato ai miei più ritrosi segreti, allettandomi
con luccicanti pezzetti d’occhio
finché il dolce dente del mio amore ha morso il duro,
ci ha grattato e ha inciampato e ciucciato te che io adesso
chiamo a comparire come ladro
nella memoria azionata dagli specchi, con un
indimenticabile gesto del sorriso, velocità
di mano in guanto di velluto
e la totalità del mio cuore sotto il tuo martello, tu
eri una volta una creatura così allegra, così schietta
un compagno senza malizia
che io non avrei mai detto né pensato mentre invece
dislocavi una verità nell’aria,
che sebbene li amassi per i loro sbagli,
 
così come per i loro pregi,
i miei amici erano nemici sui trampoli
con le loro teste lassù, in una nuvola d’astuzia.
 
 
 
 
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Immagine di copertina da The Road to Glenlough, QUI