Leopardi, la Bibbia e l’infinito

Giacomo Leopardi è stato definito da Walter Binni “il Giobbe di Recanati” e da Giosue Carducci “il Job del pensiero italiano”. Un paragone – scrive Loretta Marcon nel suo libro “Virtù non luce in disadorno ammanto” (Fermenti, pag. 222) – ripreso anche dalla critica recente, basato sulle tante disgrazie che lo colpirono e sulle domande, che soprattutto nel Canto notturno, egli eleva nel silenzio della notte.  L’Infinito   è una ricerca che non ha nulla di mistico e di spirituale (tesi che aveva sedotto lo stesso Francesco De Sanctis), ma come non rimanere stupiti davanti alla sete d’infinito del poeta? Egli dice: “triste è quella vita che non vede, non ode, non sente altro che le cose che percepisce cogli occhi, cogli orecchi e coi sensi. (Zib.  4418, 10 novembre 1828). Non c’è forse in lui l’aspirazione a liberarsi dai limiti della materia per andare verso cieli nuovi e terre nuove? Egli, grazie all’immaginazione, amplifica, raddoppia il reale, rivelando una sorta di mondo parallelo, come avesse una seconda vista, un doppio udito, un mondo più alto verso cui evadere. Il poeta vede cose che sono capaci di ridestare arcani mondi. In Amore e morte non evoca forse “quella / nova, sola, infinita / felicità che il suo pensier figura”? E nell’Infinito non evoca “interminati / spazi”, “sovrumani / silenzi”, “profondissima quiete” e poi ancora “infinito silenzio”, “l’eterno” e il “naufragio” nel mare dell’infinito? E nell’ode al conte Carlo Pepoli non desidera ricercare gli “infiniti / campi del tutto”? E nel celebre idillio non condensa tutte le aspirazione verso l’infinto di Young, Alfieri, Rousseau, Goethe, M.me de Staël e soprattutto   quella del Pascal che si definiva estasiato davanti al “silenzio eterno degli spazi infiniti”, davanti ai quali provava “spavento”? (Pensée, Brunschwig, ora in Pascal 1996, pag. 194). Un’eco dell’aforisma pascaliano si avverte nel quinto verso dell’Infinito: “ove per poco / il cor non si spaura”. Sull’onda di Pascal Leopardi insiste sulla “vastità incomprensibile della esistenza”, nella quale l’uomo “si trova quasi smarrito”, tanto da “perdere quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose? (si veda lo studio di Luigi Capitano “Leopardi e lo spazio immaginario” in “Declinazioni dello spazio nell’opera di Giacomo Leopardi”, 2021, pag. 119-134). Gli antecedenti dell’Infinito si possono già trovare nelle Confessioni di Jean-Jacques Rousseau che scriveva: “E’ impossibile agli uomini e difficile alla stessa natura superare in ricchezza la mia immaginazione”.     Leopardi nel 1819, leggendo Rousseau, probabilmente concepì l’idea di scrivere l’Infinito, ma a differenza dello scrittore francese che voleva abitare solo il presente, il poeta recanatese desiderava allontanarsi dalla realtà, dall’arido vero, per poter volare nell’infinito del tempo e dello spazio e provare una sensazione di rapimento e di felicità (e il naufragar m’è dolce in questo mare). Leopardi, come scriveva nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, ha creato un testo di una sensibilità più ardita rispetto a quella di Rousseau, una poesia filosofica e insieme indefinita, nata da un’immaginazione che si nutriva soltanto di sé stessa o dei suoi processi mentali, e non aveva bisogno di qualcosa di esterno e di reale. Ma mentre Rousseau coltivava la dilatazione dell’animo e guardando il cielo procedeva di infinito in infinito sino a perdersi, il poeta recanatese seguiva la strada opposta e per immaginare l’infinito aveva bisogno di avere intorno a sé un “limite”, doveva stare chiuso in un carcere immaginario dietro al quale soltanto poteva perdersi negli spazi interminati. Ed ecco l’immagine della siepe che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.  Questo ostacolo gli impediva lo sguardo e per questo stimolava il sentimento e la fantasia a spaziare nell’infinito, perché, come scriveva nello Zibaldone, “alle volte l’anima desidera una vedetta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche”. Di qui il recupero del tema romantico europeo delle “vedute ristrette” che si slargano nell’infinito: “Il piacere che io avevo da fanciullo di contemplare il cielo attraverso una finestra, una porta…la vastità delle sensazioni diletta moltissimo l’anima… l’anima è nata per il grande…ogni grandezza incircoscritta sollecita il piacere dell’infinito”. Il desiderio di infinito si traduce in una “ontologia dell’immaginazione”, come si legge nella “Storia del genere umano” (Capitano, art. cit, pag, 125). Anche nell’Infinito, “in luogo della vista, lavora l’immaginazione”. L’“ultimo orizzonte”, che sostituisce il precedente “celeste confine”, produce l’effetto di rendere ancor più profondo il limite immaginario della visione  oltre la siepe. Di fronte allo sguardo immaginativo, la “siepe” diventa così la soglia mobile tra il vicino e il lontano, tra il suono e il silenzio, fra visibile e dell’invisibile, fra fisico e il non-fisico. L’immaginazione raggiunge i luoghi dell’infigurabile e dell’ineffabile consentendo di esplorare i linguaggi dell’indefinito e del lontano: “piacevolissima la stessa luce veduta, frastagliata dalle ombre nelle città, il potersi spaziare con l’immaginazione riguardo a ciò che non si vede”, visione che sta alla base dell’Infinito. L’uomo desidera l’infinito, ma non potendo abbracciarlo, si perde in immagini indefinite, tanto poetiche quanto vaghe e indeterminate. Nell’Infinito manca la presenza del dolore. Ma il Leopardi successivo quello del poeta del Canto notturno non poteva non approdare all’infinita spiaggia del dolore universale e, richiamando il Qoèlet, al sentimento dell’infinita vanità del tutto. Il pessimismo antico biblico e il pessimismo moderno si incontrano. Il Leopardi “odia la vita e te la fa amare”, come perfettamente dice Francesco De Sanctis, Qoèlet predica il suo “hebel habalim (vanitas vanitatum)” riecheggiato nell’“infinita vanità del tutto” leopardiana.