L’elaborazione del tutto – Luca Bresciani

 
 

Affrontare ciò che comunemente chiamiamo poesia è divenuto, in tempi recenti, apparentemente semplice e alla portata di tutti. I diversi tentativi secondo novecenteschi di innovare la parola scritta in versi, assieme a una facilitazione tecnica che ha relativamente abbassato i costi di produzione dell’oggetto libro (in realtà non è così, il digitale ha solo dato la possibilità di stampare meno copie quindi di perdere d’impatto sul territorio, a parità di tiratura i prezzi si sono notevolmente alzati), ha consegnato una percezione del tutto virtuale di poesia semplice, viscerale, slegata da quello che un tempo era un percorso di studi quasi totalizzante (si pensi a un Montale che prende le distanze dai poeti laureati e poi è Montale! E non a caso cito il poeta ligure in quanto nel libro che qui si recensisce ogni tanto fa evidentemente capolino).

L’avvento dei Social ha inoltre ulteriormente ispessito questa falsa credenza che la poesia possa essere un’immediata espressione di sé (come se il avesse in effetti importanza, rilevanza tale da dover essere trasmesso). Un po’ come nei videogiochi nei quali la dinamica apparentemente complessa si riduce alla medesima che vuole il cane immediatamente omaggiato del biscotto se ubbidisce a una determinata azione (e notare che ci sono studi che sottolineano la maggiore intelligenza e capacità di cooperazione dei lupi, ovvero dei cani che non sono stati addomesticati). Nei videogiochi l’iter è lo stesso: soddisfazione immediata se fai l’azione prevista dal programma.

L’immediatezza della soddisfazione, della risposta all’azione (che deve omologarsi al programma predeterminato) dei videogiochi, o il biscotto dato al cane in fase di addestramento, non è dissimile dal like atteso su Facebook o nei vari Social Media (anche se alla fine parliamo sempre di Facebook per l’enorme divario che lo pone di fatto come il Social nettamente più importante e utilizzato). E questo ha coinvolto anche la Poesia e la percezione della Poesia. Un testo scritto viene immediatamente pubblicato e si attende un’immediata soddisfazione data dal like.

Ma un testo immediatamente pubblicato riceve immediatamente riscontro solo se immediatamente compreso. Per cui i presupposti del testo si abbassano talmente tanto da rendere sempre più semplice (leggi: banale) scrivere versi che hanno immediatamente riscontro. Da qui alla pubblicazione il passo è breve e le dinamiche per molta parte dell’Editoria italiana (per fortuna non tutta) non sono dissimili. Francesco Sole docet.

La facilità dell’approccio a questa pseudo poesia, la sua divulgazione massima a livello di possibilità di scrittura e di possibilità di pubblicazione (ahimé non certo di lettura) ha però anche creato il suo opposto, un’esigenza cioè di testi che anche se non si avvicinano a quanto pochi decenni fa leggevamo (Montale, Ungaretti, Zanzotto, Quasimodo, Benzoni) almeno hanno una parvenza di stile, di tradizione (per fare il verso a Eliot). L’abbassamento totale e demoralizzante della capacità di comporre una buona poesia ha cioè creato un gruppo di lettori che pretendono una poesia non facile, una poesia riconoscibile come voce e come storia.

In tutto questo Davide Rondoni dice bene, nella breve prefazione a L’elaborazione del tutto di Luca Bresciani (Interno Poesia 2017), quando parla di tentativo di poesia che sembra sottrarsi programmaticamente all’offerta di materia biografica, resa per sole geometrie interne di pensiero e tensione morale. Come se quel compito di cui l’autore parla rispetto alla vita e al mondo trovasse nella scrittura stessa il primo campo, la prima verifica e il primo duro banco di prova. Cosa è infatti una scrittura che cerca l’allargarsi alla vita? L’autore qui cerca di compiere tale allargamento per sottrazione, ovvero non chiedendo alla sua scrittura di farsi ospitale del mondo bensì di farsi quasi pura grafia intellettuale e morale, registrazione sismografica di movimenti interiori – non di rado tellurici. Abbiamo così un libro compatto e volitivo, una parola asciutta e provocante. Una scrittura che chiama il lettore a poche, necessarie, questioni. Il che per un libro non è poco.

Il libro di Luca Bresciani è appunto un tentativo di poesia che consegna dei presupposti più che promettenti soprattutto all’insegna di quella lentezza che oggi è anacronistica. Una poesia che non cerca un riscontro immediato, che non ammicca al lettore, che non parla della propria biografia come conditio sine qua non della lettura di un qualcosa che non è nemmeno più il mondo. Bresciani affronta letteralmente il mondo:

 
Chi ha osservato la guerra
non può temere una barca
anche quando manca lo spazio
per avvitare una supplica in cielo.

 
Che Dio ci aiuti.
 
Che Dio aiuti gli uomini
ad aiutare gli uomini.

 

ponendosi delle domande fondamentali, attingendo coraggiosamente all’uomo prima del poeta e all’uomo che inevitabilmente e necessariamente realizza il poeta:

 
Vieni a morire da me stasera?
 
Se esiste un tunnel di luce
noi lo invaderemo insieme
mischiando l’eco dei ricordi
per crederci meno distanti.

 

Non tralasciando anche alcune risposte:

 
Voglio tornare a fare ribrezzo
strisciando negli accenti di fango
con cui le domande del mondo
elemosinano verità e coraggio.

 
È l’odio che mi terrorizza.
 
La malattia della misericordia.
 

Perché di questo si occupa la poesia: di domande, di risposte. Senza soluzioni definitive ma con quella frattura nel contemporaneo che rifiuta l’accelerazione considerandola disumana (non a caso Bresciani intitola un periodo Il corpo disumano dove afferma che Il corpo disumano / è un corpo ripido […] Sulle sue cime senza vista / solo il silenzio si salva. / Poi neve svelta / che cade già sporca). Accettando quella malattia della misericordia che ha come incipit una lettera aperta alla vita stessa: Cara vita maledetta / ecco questa lettera amputata / che inverte il ciclo della leggerezza / schiantandosi sulla propria ombra.

La parola in Bresciani resta comunque l’ultimo approdo, l’ultima preghiera (il capitolo conclusivo del libro si intitola infatti Quasi preghiere) dove non senza intelligenza l’autore rifiuta di consegnare verità alcuna e lo esprime nei primissimi versi del periodo:

 
Non serve a nulla
allungare la vita.

 
La vita va allargata
incontro alla memoria

 

passando per consapevolezze, prese d’atto:

 
Innamorarci dei palmi
che non hanno destini lucidi.

 
Scioglierne come nodi
le impronte digitali

 

fino al tentativo finale di trovare il morale della storia, un senso che dia motivo alle cose non di muoversi, di crescere (in questa finta quanto irreale proiezione alla crescita continua e infinita che ci consegna il mondo), ma di restare ferme, di restare nel senso di essere, esistere:

 
Rovistare tra gli aggettivi
accartocciati e resi folli

[…] sapendo che si salva dalle ombre
solo chi dona le proprie altezze.

 

E poco importa se qua e là il testo consegna sbavature stilistiche che un buon editing avrebbe ripulito. Bresciani ha il merito di non cercare effetti speciali, la forza sta in una sorta di compattezza interiore, quasi di tensione morale come dice Rondoni. Ha la consapevolezza di essere esposto a non pochi rischi – specie in questa epoca che tende a premiare la “moralità” nell’arte, spesso confusa con i moralismi adatti al potere di un pensiero dominante, quel genere di cose che faceva giustamente infuriare il sarcastico genio di Baudelaire. Ma la poesia offre a questo rischio un riparo, o almeno un vaccino. Soprattutto nella terza e quarta sezione la voce si indurisce, cerca l’essenziale “le domande del mondo” che “elemosinano verità e coraggio” e in una sorta di poetica rovesciata contro la poesia inessenziale si cerca una via che sfugga al troppo facile, al consolatorio anche della letteratura come sempre dice il prefatore.

E ha il merito di tentare d’appoggiarsi a una tradizione che, come si diceva poc’anzi, qua e là fa capolino. Come ad esempio in certi versi:

 
È un faro senza guardiano
in preda a contrazioni d’abisso
che comunque resiste acceso
truccando di luce ogni grido.

 

che echeggiano il succitato Montale (pur con le ovvie e dovute distanze):

 
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l’oscura primavera
di Sottoripa.

 

Concludendo un libro che è di fatto (e in questo è pienamente riuscito) una rielaborazione del tutto comprendendo il tutto in ciò l’autore ha nel suo raggio di sguardo e d’azione, qualcuno direbbe nel suo paesaggio. Che affronta con solidità, intelligenza. Il che non è poco, sempre per citare Rondoni.

 

Alessandro Canzian

 
 
 
 
Ho partorito senza gridare
in nome di chi ho visto morire
e che ora è un pugnale di carne
incastrato nella fame delle onde.
 
La mia bambina è così piccola
che sul mio seno è una coccinella
soffocata dal peso di lacrime buie
crollate da volti allevati nel sangue.
 
Quante volte dobbiamo ingoiare
le agili spine dell’illusione?
 
Quante volte nel nostro corpo
deve scavare una tana il silenzio?
 
E ora moriamo un’altra volta
tra queste primavere di malta
noi figli illegittimi della speranza
noi maglie nere del giro dell’urgenza.
 
 
 
 
 
 
La mia spina dorsale
è una colonna di parole
che inizia con maiuscola tristezza
e finisce con un punto di speranza.
 
È un faro senza guardiano
in preda a contrazioni d’abisso
che comunque resiste acceso
truccando di luce ogni grido.
 
È un cero di istinti
addestrato dal fuoco dei dubbi
che lentamente si china e si sdraia
per seminare il cuore nella terra.
 
 
 
 
 
 
Il corpo disumano
è un corpo ripido
senza appigli per la fame
di chi è digiuno di sole.
 
Sulle sue cime senza vista
solo il silenzio si salva.
 
Poi neve svelta
che cade già sporca.
 
 
 
 
 
 
Cara vita maledetta
ecco questa lettera amputata
che inverte il ciclo della leggerezza
schiantandosi sulla propria ombra.
 
Voglio tornare a fare ribrezzo
strisciando negli accenti di fango
con cui le domande del mondo
elemosinano verità e coraggio.
 
È l’odio che mi terrorizza.
 
La malattia della misericordia.
 
Le moderne alleanze
che non usano la pelle
per far virare il peso del pianto
verso il sorriso largo di un porto.
 
 
 
 
 
 
Non serve a nulla
allungare la vita.
 
La vita va allargata
incontro alla memoria
dove non evapora il pianto
di chi è nato e morto fuggendo.
 
Di chi è stato partorito a pezzi
e spende gli anni a ricongiungersi
senza il diritto di considerarsi
unito a se stesso e agli altri.
 
La vita va allargata
come una goccia di pioggia
quando incontra uno squarcio
adottandone voce e aspetto.