dio non conosce le tue preghiere
immerse in valle di nulla
grida dissonanti di periferie
se gridi mi sentirai anche in questa vallata
e s’agitano si muovono in chiesa
come animali in recinto
nuovi recinti più sottili e più solidi
per sfogare la nostra animalità
avvilito corpo dal possesso
l’amplificatore della preghiera incita
a battere picchiare distruggere
ciò che non è conforme non civile bestia ignobile sotto i calci
un coro dei propri corpi possedenti trilla
danza ma non viene sopraffatto
come chi scrive a margarete
il bello non è buono
il bello si giustifica col piacere
nei giorni che vorrebbero notti
e notti inappagate di cammini
la fame strappa sentieri alla pace
il sole è fin troppo alto
accarezzo i raggi con gli zigomi
mentre gli occhi mi prendono
in possibilità e del futuro nostalgie
il mio sistema immunitario un’insidia e
per il mondo lo disintegro pian piano
un rivolo magmatico scava vene e arterie
che goccia a goccia il mare si faccia sangue
la terra carne roccia ossa atmosfera respiro
tradurre per me in me non senza eruzioni
e bradisismi perdono resto non colpevole
con la mia colpa viva un tempo arriverà
a spazzar via le distanze io il mondo
(Roberto Lumuli Gaudioso, Squittii, Oèdipus, 2020)
In questi versi di Gaudioso è possibile rinvenire una particolare tensione, volta a evidenziare la dissonanza stridente tra bello e buono, quasi a rovesciare l’adagio classico in un monito, un invito a precipitare lo sguardo e a cambiarne la prospettiva dal basso; la bellezza (e la sua apparenza) assume così fattezze più affini al terribile, a un pericoloso agente della rovina, mentre, per converso, la bontà si lascia intuire come operazione di accoglimento, di umile auscultazione dell’altro da sé e del mondo, in un progressivo allontanarsi dal sé.
Se dunque le nostre preghiere, sconosciute a dio, sono “immerse in valle di nulla”, gli esseri umani e le loro pulsioni istintive sono prossimi ad “animali in recinto”, irrequieti, anche se si tratta di recinti “più sottili e più solidi / per sfogare la nostra animalità”; ciò che amplifica l’inascoltata preghiera allo stesso tempo testimonia l’impulso a “battere picchiare distruggere / ciò che non è conforme”, riservando una condotta bestiale a ciò che, paradossalmente, viene ritenuto “non civile” – ed ecco che la bellezza, in questo caso di un’ideale umano, può rovesciarsi in un impulso ancora peggiore, nella legittimazione della violenza, nel corroborarne lo slancio aberrante proprio tramite l’ideologia: “il bello non è buono”.
Ma “il bello si giustifica col piacere”, ed ecco che è ancora un impulso del tutto corporale a spingere convinzioni intellettive, ingannandone i processi cognitivi: trasfigurando la percezione della contraddittorietà della natura umana negli elementi naturali (“notti inappagate … giorni che vorrebbero notti … il sole è fin troppo alto … accarezzo i raggi”) l’io lirico è travolto dalle possibilità e delle nostalgie del futuro, in un sentire melanconico affine alla saudade.
Se tale fisicità, inconsapevole, rischia di condizionare in modo subdolo e sotterraneo la lucidità della presa di coscienza del sé e del mondo, pur cercando impulsivamente di preservare l’individuo, allora “il mio sistema immunitario” diventa “un’insidia”, e sarà proprio per riuscire ad accedere alla reale natura del “mondo” che andrà “disintegrato”: in un procedimento di allontanamento dal sé e di dispersione nei fenomeni circostanti, reso attraverso immagini di compartecipazione intensa con il paesaggio (“un rivolo magmatico scava vene e arterie / che goccia a goccia il mare si faccia sangue / la terra carne roccia ossa atmosfera respiro”) ,“la colpa viva”, percepita dolorosamente dall’io del testo, si può redimere attraverso l’annientamento delle “distanze”, dell’ “io” e del “mondo”, in un accogliere universale che si pone, in ultima istanza, come rinuncia e abbandono della propria esclusiva fisicità per riscoprirsi frazione minima del “corpo” di ogni cosa.
Mario Famularo