All’interno della rubrica di Laboratori Poesia che intende promuovere e ampliare online il dibattito delle migliori riviste letterarie che si occupano di Poesia oggi in attività, proponiamo un interessante estratto dall’articolo di Sergio Cicalò su Le Therīgāthā. Femminilità, spiritualità, poesia, uscito sul numero 2 di Avamposto a Novembre 2022.
La Redazione
sabbo ādīpito loko sabbo loko padīpito
sabbo pajjalito loko sabbo loko pakampito
Tutto il mondo è in fiamme
tutto il mondo splende
tutto il mondo brucia
tutto il mondo trema.
Therīgāthā, 2001
Le Therīgāthā (‘strofe delle therī ’– delle venerabili, delle monache reverende) sono state composte dalle prime donne che seguirono il Buddha.
Poesie di una o più strofe, monologhi o dialoghi, non possiedono una forma determinata ma hanno in comune il sapore del risveglio, la luce dell’attenzione conquistata, dello spiraglio che aprendosi improvvisamente porta fuori dal dolore.
Negli ultimi anni, delle Therīgāthā sono apparse innumerevoli traduzioni in inglese, due in italiano2. Una raccolta di poesie composte da donne, la più antica di cui abbiamo notizia, risalente a quasi due millenni e mezzo fa, è uno dei libri di poesia oggi più accanitamente tradotti e pubblicati al mondo.
Incunabolo della “poesia femminile” e della “poesia spirituale”, le Therīgāthā – insieme alle Theragāthā, la raccolta delle strofe dei primi monaci – hanno generato la tradizione buddhista della poesia dell’attenzione e dell’illuminazione, che è stata tanto importante – soprattutto attraverso i suoi esiti cinesi e giapponesi – per la pratica poetica novecentesca euroamericana, e ha modificato in modo determinante la nostra stessa idea di poesia.
Arando il campo, seminando, gli uomini
nutrono i figli e la moglie, si guadagnano
da vivere.
Perché io, praticando la morale e l’Insegnamento,
non mi guadagno la liberazione?
Non sono pigra, non sono inquieta.
Lavandomi i piedi, guardo
l’acqua: nell’acqua che scorre
fermo la mente, come un purosangue
ben addestrato. Presa la lampada
entro nella cella, guardo
il giaciglio, mi siedo, con l’ago
tolgo lo stoppino.
Come la lampada
si spegne la mente
è libera3.
Sarebbe difficile trovare un oggetto più adatto a mettere alla prova le categorie di “femminilità” e “spiritualità” in poesia – e infine proprio la categoria “poesia” – di questi reperti irriducibilmente misteriosi e stranamente prossimi: traccia di una civiltà tanto lontana nel tempo e nello spazio, e segnavia graffito presso un nodo cruciale della contemporaneità.
Il punto di partenza – e d’arrivo – del nostro percorso attraverso le Therīgāthā è la traduzione del testo originale. Il lettore è invitato a scorrere una prima volta questo scritto leggendo solo le poesie che vi sono incluse. Traducendo ho cercato di scrostare il sedimento che migliaia d’anni di erudizione maschile hanno fatto depositare sulla parola femminile. Scrostare la mia stessa voce di maschio erudito per fare emergere la parola femminile che ancora brucia, tanto più giovane perché tanto più antica. Soffiare per avvivare il rosso della brace.
Non è questione, qui, di risposte. Il fuoco che dobbiamo avvivare è quello delle domande. Le domande che la voce delle therī trasmette alla nostra stessa lettura.
[…]
*
Spiritualità. Spiritus. Respiro, spirito, sé.
Spiritus voce, spiritus poesia. Respiro ritmo, respiro parola.
In India, da sempre, disciplina del respiro come disciplina del sé. Lessico e grammatica saldano l’identificazione: ātman in sanscrito, attan in pāli, sono “respiro” e sono “sé”.
Ma agli autori delle Upaniṣad, al loro annuncio che «tu sei questo», all’identificazione dello spirito individuale con lo spirito universale, il Buddha oppone una certezza negativa: attan – il sé, lo spirito – è illusione. Ogni stato di coscienza è tinto dell’illusione del sé, tutto il mondo si manifesta come sé attraverso il sé. Bisogna esercitarsi a vedere la realtà come continuo sorgere e dileguare di fenomeni (dhamma) impermanenti (anicca) e privi di sé (anatta). La disciplina del respiro sottopone lo spirito al giogo dell’attenzione – perché lo spirito uccide, la lettera vivifica.
La parola spiritualità, traversando il buddhismo, deve sopportare la prova dell’impossibile. Superandola, prosegue il viaggio – sulla barca della poesia. Non c’è sé, non c’è spirito, non c’è respiro, anche se abbiamo solo questo respiro, questo spirito, questo sé – per liberarci dal sé. Solo questa voce per dire l’indicibile.
Solo la poesia.
*
L’archetipo della poesia della liberazione è l’udāna4 (l’annuncio gioioso) del Buddha stesso:
Trascinato nel cerchio delle nascite
cercare senza fine e non capire
chi costruisce con questo dolore
la casa sempre nuova della vita…
Finalmente ti ho visto, desiderio!
Da oggi in poi non costruirai più case.
Tutte le travi sono rotte, il tetto
è scoperchiato, la mente non ha
più fondamenta, la sete è placata5.
Questi versi descrivono, con i mezzi del linguaggio, un evento indescrivibile. Lo designano tramite un apparato metaforico apparentemente referenziale, quasi tecnico. La pressione “vuota” del non dicibile investe direttamente la terminologia “piena” del Buddha, che non rinuncia a fornire una mappa del suo itinerario. Una mappa di cui chiunque altro potrebbe giovarsi.
Ma è indispensabile evitare un equivoco. La poesia, ora e sempre, non può essere mera relazione di qualcosa che accada all’esterno. Qualcosa di cruciale deve accadere in essa.
Dal primo udāna del Buddha in poi si stabilisce un legame inscindibile tra liberazione e poesia: laddove ha luogo la liberazione sorge il canto. Non si può ridurre la coincidenza a mero espediente protrettico. Il canto è rivolto allo stesso tempo agli altri e al proprio sé dileguato. L’uscita dal linguaggio implica un trampolino nel linguaggio e un riscontro nel linguaggio.
Per questa ragione non possiamo leggere le Therīgāthā se non come poesia6. E la prova sarà proprio la traduzione. La forma poetica è l’unica che possiamo prestare alle Therīgāthā. Non è un arbitrio, né una scorciatoia, è una necessità. A posteriori, ma per sempre, la natura di poesia delle Therīgāthā ci si rivela per mezzo di questa cartina di tornasole.
Abhayā, labile
il corpo.
Ci siamo tutti
così attaccati.
Attenta, desta,
lo terrò fermo.
Dolore dei fenomeni,
felicità dell’attenzione.
La sete è estinta, è vera
la verità7.
La poesia dell’illuminazione, benché sorga posteriormente alla liberazione dal linguaggio, e sorga proprio per annunciarla, è tutta interna all’insufficienza del linguaggio stesso – assunta come possibilità di dire sé stessa fino in fondo, fino al confine dell’indicibile.
Tutto ciò non è che una retorica elementare, direbbe forse qualcuno, ponendo i versi delle Therīgāthā a riscontro con l’esperienza cruciale della poesia moderna, la svalutazione radicale della referenzialità. Ma questi versi potrebbero suggerirci che l’esibito, mimetico collasso della referenzialità è solo un’altra retorica – e che mimare, colonizzare il non dire con il dire abolisce l’indicibile.
All’incessante esercizio d’attenzione verso il sorgere e il dileguare dei dhamma, dei dati che intessono l’illusione del sé, si accompagna la fiducia nella possibilità di dire attentamente questa illusione, che è possibilità di determinarne la fine. L’abhidhamma – la psicologia-ateologia buddhista, immensa casistica del manifestarsi dei dhamma – con la sua minuziosa precisione terminologica conferma in modo spettacolare questa solida, per quanto transeunte, fiducia nel linguaggio.
D’altra parte, non dimentichiamolo, i meditanti – a differenza dei nostri teorici della letteratura – diffidano dell’asse paradigmatico. Le associazioni devono essere riconosciute, tenute a bada, spezzate. Secondo il Buddha:
Come una scimmia che vaga per una foresta afferra un ramo, lo lascia e ne afferra un altro, lo lascia e ne afferra un altro; proprio così, monaci, la cosiddetta mente, il cosiddetto pensiero, la cosiddetta coscienza continuamente sorge e cessa come una cosa o come un’altra8.
La mente, cittā. Secondo la tradizione, una therī chiamata Cittā ha composto la poesia che segue. Due strofe, un itinerario apparentemente breve, bruscamente concluso. I nessi di ordine paradigmatico sono fermamente basati sulla referenza, sulla limpida designazione di oggetti visti uno per uno. Anche qui (come l’acqua, il giaciglio, l’ago nella prima poesia che ho tradotto) ogni oggetto si staglia vibrante, segnato dall’orma dell’attenzione. La therī isola i fenomeni nominandoli, seguendo passo passo il manifestarsi della mente in essi, facendo forza su ciascuno per arrivare a saltare fuori dal linguaggio e dal sé. L’esito è indicato sbrigativamente da una formula, all’ultimo verso. Il percorso è descritto con tutta la lentezza necessaria.
Scarnita, malata, sfinita,
sostenendomi con il bastone
scalo la montagna.
Tolto l’abito,
capovolta la ciotola,
mi appoggio sulla roccia
e distruggo la massa della tenebra9.
La therī Cittā poggia il ponte della poesia dove ha poggiato il suo corpo, sul suo bastone e sulla roccia. Attraversandolo lo lascia a noi, non lascia altro.
Sergio Cicalò
1 Therīgāthā (Thī) 200 (da 8.1: Sīsūpacālā-therīgāthā). Per le traduzioni ci basiamo sul testo approvato dal Chaṭṭha Saṅgāyana (‘Sesto Concilio’, tenuto a Rangoon, in Birmania, tra il 1954 e il 1956); in alcuni luoghi (segnalati in nota) abbiamo preferito la lezione dell’edizione PTS, della quale abbiamo anche adottato le convenzioni grafiche: Theragāthā & Therīgāthā, Pāli Text Society, 1a ed. (H. Oldenberg, R. Pischel), London 1883; 2a ed. (con appendici a cura di K.R. Norman e L. Alsdorf), 1966, 1990. Il testo del Chaṭṭha Saṅgāyana (CS) è stato digitalizzato a partire dagli anni ’90 a cura del Vipassana Research Institute di Igatpuri (India) e pubblicato in CD-ROM (ultima versione: CSCD3, oggi disponibile anche come software desktop per Windows: CST4, 2022, reperibile in rete presso https://www.tipitaka.org/).
2 Le traduzioni in italiano attualmente disponibili, che hanno fini e criteri completamente diversi dai nostri, sono D. Rossella, Buddhismo al femminile. Therīgāthā. Le poesie spirituali delle monache. Con una introduzione alla dottrina del Buddha e la storia dell’ordine monastico delle donne, Guerini e Associati, Milano 2020; A.S. Comba, Therīgāthā. Canti spirituali delle monache buddhiste. Con il commento Paramatthadīpanī di Dhammapāla, Lulu, Raleigh 2014, 2016. In inglese la traduzione che fa ancora testo, tanto rigorosa da essere praticamente illeggibile a chi non abbia accesso al testo originale, è sempre quella di K.R. Norman (Elders’ Verses II. Therīgāthā, Pāli Text Society, London 1971), che è stato forse il massimo filologo pāli del nostro tempo.
3 naṅgalehi kasaṃ khettaṃ bījāni pavapaṃ chamā | puttadārāni posentā dhanaṃ vindanti māṇavā || kim ahaṃ sīlasampannā satthusāsanakārikā | nibbānaṃ nādhigacchāmi akusītā anuddhatā || pāde pakkhālayitvāna udakesu karom’ ahaṃ | pādodakañ ca disvāna thalato ninnam āgataṃ | tato cittaṃ samādhesiṃ assaṃ bhadraṃ v’ ajāniyaṃ || tato dīpaṃ gahetvāna vihāraṃ pāvisiṃ ahaṃ | seyyaṃ olokayitvāna mañcakamhi upāvisiṃ || tato sūciṃ gahetvāna vaṭṭiṃ okassayām’ ahaṃ | padīpasseva nibbānaṃ vimokkho ahu cetaso || Thī 112-116 (5.10: Paṭācārā-therīgātha. Leggo bhadraṃ v’ ajāniyaṃ secondo la proposta di Norman, Elders’ Verses II cit., p. 197). Per lo spegnersi della lampada la therī Paṭācārā usa la parola nibbāna (corrispondente al sanscrito nirvāṇa).
4 Al genere dell’udāna, l’annuncio gioioso, appartengono in gran parte le Therīgāthā, anche se il commentatore, per ragioni estrinseche, tende a negarlo (Norman, Pāli literature cit., p. 61).
5 anekajātisaṃsāraṃ sandhāvissaṃ anibbisaṃ | gahakāraṃ gavesanto dukkhā jāti punappunaṃ || gahakāraka diṭṭho ’si puna gehaṃ na kāhasi | sabbā te phāsukā bhaggā gahakūṭaṃ visaṅkhataṃ | visaṅkhāragataṃ cittaṃ taṇhānaṃ khayam ajjhagā || Dhammapada (Dhp) 153-154, ed. O. von Hinüber e K.R. Norman, Pāli Text Society, Oxford 1994, 1995, pp. 43-44; seguo il testo CS. Le «fondamenta» della mente sono i saṅkhāra.
6 I filologi che discutono se e in che misura le Therīgathā siano o non siano poesia non riescono ad appassionarci. Per esempio S. Lienhard, A History of Classical Poetry. Sanskrit-Pāli-Prakrit, Otto Harrassowitz, Wiesbaden 1984, pp. 76-79; Rossella, Buddhismo al femminile cit., pp. 55-56.
7 Abhaye bhiduro kāyo yattha sattā puthujjanā | nikkhipissām’ imaṃ dehaṃ sampajānā satīmatī || bahūhi dukkhadhammehi appamādaratāya me | taṇhakkhayo anuppatto kataṃ buddhassa sāsanaṃ || Thi 35-36 (2.9: Abhayā-therīgāthā. PTS sattā CS satā). I «fenomeni» sono i dhamma. La «verità» è l’insegnamento del Buddha. La monaca Abhayā si rivolge a sé stessa. Il commento (Paramatthadīpanī, ed. Muller cit., p. 41) attribuisce dapprima le gāthā al Buddha, apparso ad Abhayā intenta a un esercizio di meditazione, ma nell’analisi puntuale (p. 43) specifica che quando Abhayā recitò per la prima volta pubblicamente i versi, si rivolgeva a sé stessa (tattha Abhaye ti attānam eva ālapati): un modo di aggiungere valore ai versi e contemporaneamente salvare il buon senso. Alla luce dell’attribuzione ad Abhayā di tutta la poesia, sembra appropriata una traduzione di puthujjanā inclusiva della stessa Abhayā: la gente comune tanto attaccata al corpo non è loro, siamo noi. Abhayā arriva a distaccarsene, ma le strofe che ha composto dicono quanto sia stato difficile.
8 Seyyathāpi, bhikkhave, makkaṭo araññe pavane caramāno sākhaṃ gaṇhati, taṃ muñcitvā aññaṃ gaṇhati, taṃ muñcitvā aññaṃ gaṇhati; evam eva kho, bhikkhave, yam idaṃ vuccati cittaṃ iti pi, mano iti pi, viññāṇaṃ iti pi, taṃ rattiyā ca divasassa ca aññad eva uppajjati aññaṃ nirujjhati. (Assutavā-sutta, CS Saṃyuttanikāya XII.61 = S II 95, ed. Léon Feer, Saṃyutta-nikāya of the Sutta-piṭaka. >Part II. Nidāna-vagga>, P>ā>li Text Society, London 1888; seguo l’ed. CS).
9 kiñcāpi kho ’mhi kisikā gilānā bā>ḷ>hadubbalā | daṇḍam olubbha gacchāmi pabbataṃ abhirūhiya || saṅghāṭiṃ nikkhipitvāna pattakañ ca nikujjiya | sele khambhesim attānaṃ tamokkhandhaṃ padāliyā || >Th>ī> 27-28 (2.5: >Cittā-therīgāthā>).