Dopo la felice pubblicazione di Storie – silloge prefata da Massimo Gezzi – e Lingualuce, libri entrambi editi da L’arcolaio rispettivamente nel 2015 e nel 2017, Damiano Sinfonico è stato incluso nel primo volume del progetto curato da Giulia Martini, intitolato Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90 (Interno Poesia, 2019). Dopo un silenzio durato circa un quinquennio, a febbraio, il Nostro giovane poeta è finalmente tornato in libreria con Le spente lingue (Vydia, 2024).
Genovese, classe 1987, Sinfonico compie una scelta sobria, elegantissima. Bilanciando i suoi componimenti – che appaiono egregiamente in linea con il titolo –, l’autore dà prova delle sue abilità d’acrobata della parola. Si badi: non è giocosa, la suddetta silloge presa in esame, bensì onirica, favolosa e tuttavia non presenta reminiscenze di stampo surrealista, benché ancorata alla soglia che scinde il logos dal mythos. È un talento che si intravede, questo di Sinfonico, teso sulla corda del pensiero, a rincorrere i suoi temi, prima, per poterli poi finalmente acchiappare, passando a scomporli e ricomporli come un cubo da risolvere se non come una storia scritta su un quaderno già spaginato, da combinare, sempre poetando luoghi e storie – distorcendoli, quasi, all’ombra della sua lente ‘poetica’ –, per ricombinare la storia con le storie, appunto, con la quotidianità, con l’attualità. In un certo senso, sembra che entri in gioco il fantastico, con un’accezione calviniana del termine – e Calvino è per ovvie ragioni citato a chiare lettere in quello che sembra essere uno dei testi emblematici de Le spente lingue. D’altronde, il titolo di questo libro è a sua volta una citazione. Una citazione leopardiana proveniente dalla canzone Ad Angelo Mai, ma – ribadisce Sinfonico in calce al libretto – «l’espressione si trova già in Dante, che nel XXVI canto del Paradiso fa dire ad Adamo: “La lingua ch’io parlai fu tutta spenta…”. Gli spunti derivano quasi sempre dalla storiografia, ma le poesie nascono per opera della meraviglia» (Le spente lingue, cit. a p. 53). La meraviglia scaturisce dunque da questo libretto, così breve eppure tanto eccelso, intenso.
Ebbene, se è doveroso ribadire in questa sede che Sinfonico costruisce con intelligenza il suo progetto, tessendo un fine e accuratissimo fil-rouge fra le sue precedenti pubblicazioni e Le spente lingue, è altrettanto necessario sottolineare come la distanza fra il poeta e l’oggetto del suo canto venga sintetizzata dal poeta stesso attraverso l’evocazione del Malum aureum (cfr. Le spente lingue, p. 26):
«come frutta di luce»
CALVINO, La distanza della Luna
Malum aureum è il nome dell’arancia
in latino. L’astronomia delle lingue
capta pomi di luce.
Da un catino senza fondo
e nero risale in superficie
un frutteto d’ambra.
Non è tutto. Nel libretto è reperibile altresì un dissimulato citazionismo, frazionato da un’eterogeneità di contenuti, dato che Sinfonico sutura diverse, plurali prospettive intersecando il presente a una storia più generale. Nella sua amabile prefazione, Antonio Lanza – il quale individua quattro aree tematiche corrispondenti alle parti del libro (linguistica, letteraria, religiosa, bellica) –, scrive che la silloge «presenta una suddivisione interna in quattro sezioni, scelta determinata da ragioni di ordine tematico: peculiari espressioni linguistiche nella prima, esempi tratti dalla letteratura nella seconda, spunti di argomento religioso nella terza e, nell’ultimo segmento, testi in cui si susseguono sanguinose campagne militari» (p. 11). Una riflessione che abbraccia un bacino di storie in nome di qualcosa di più capillare, che versifica uno studio sulla lingua in generale, nonché puntando i riflettori sulle lingue morte – spente, anzi –, al fine di raccogliere quei «pomi» (scrive Sinfonico) o «frutti» (direbbe Calvino) «di luce».
In sostanza, Le spente lingue è il frutto di una sensibilità che non ristagna nella sua aura, ma cresce e deflagra, procede imperterrita trascinando(si) nella luce, quella luce che sfrutta da un lato l’inventiva come trampolino di lancio per una riflessione sempre attuale, densa, ma che dall’altro desidera approdare alla sintesi. Un nobile obiettivo, dunque, per una penna giovane e affilata tanto quanto uno scalpello.
Vernalda Di Tanna
L’aria è piena di piume
ovvero di neve
annota Erodoto
parlando del clima degli Sciti.
Miopi per fitta leggerezza
non avevano un termine
per designare la neve
e nella privazione
giunsero a un’immagine
che dalle Storie si deposita
sull’atlante delle lingue.
Babelico l’esercito di Cartagine
non ha interpreti che ripetano
la stessa arringa in diverse lingue.
Mercenari di diversa provenienza
ne riempivano le file e la rivolta
fu doppiata dai malintesi.
Una pentecoste al contrario li divise.
«Naevia lux», inquit, «Naevia lumen, ave».
Nevia come Lolita,
Nevia sillaba di lume e neve,
ave Nevia, Biancaneve.
Rufo scrisse sdolcinato.