Parliamo delle Muse, amiche ed ispiratrici dei poeti e degli artisti in genere, in particolar modo dei musicisti. Poesia e musica sono sempre state legate da un vincolo insopprimibile, che un tempo obbediva a regole formali molto rigide, con il computo delle sillabe, in genere settenari ed endecasillabi, le rime e le assonanze. Tutto ciò non scompare ma diventa un “optional”, ferma restando l’importanza del ritmo. Ma la libertà in poesia, come pure nelle arti visive del mondo post moderno e nella musica dodecafonica, è infinita, insieme alla ricerca lessicale, metaforica, allegorica. Lo scavo nel profondo rivela e fa parlare l’inconscio. Per il poeta non si tratta ovviamente soltanto di estrarre da sé le sue emozioni e ragioni ma di rendersi interprete di sentimenti vasti e condivisi. Il poeta è vate. Tanto è vero che la poesia alle origini nasce come epica, canto epocale, espressione di ephos, un tempo che riguarda tutti.
Le Muse accettano la guida di Apollo quale musico e signore del Bello. Sono dee olimpiche fra le più venerate, figlie di Zeus e di Mnemosyne, la Memoria. Zeus è un nome che ha a che vedere con la luce, dunque la poesia è memoria consapevole. La differenza tra un semplice ricordo e “farne memoria” sta appunto in ciò, consapevolezza del senso, del significato delle ricordanze. Uso questo termine leopardiano caro alle nostre memorie scolastiche. Fare memoria è un tentativo di eternità, ha in sé il bisogno di combattere il nichilismo e il nulla. Costituisce la “poetica” il contenuto di un componimento. Ma non possiamo dimenticare il legame strettissimo osmotico tra contenuto e forma; anzi il contenuto stesso diventa la forma che assume, specie nell’arte più eccelsa. Il grande architetto Carlo Scarpa soleva dire: “Finché c’è la forma non c’è la morte“.
Attenzione a non cadere in una vuota forma e in un virtuosismo parolaio che si allontana dalla poesia.
Le Muse sono e restano le suggeritrici. Sono anche dette “eliconie” poiché abitano il monte Elicona. La simbogia del monte è chiara: molte rivelazioni richiedono questa ascesi, pensiamo alle tavole della legge mosaica, ma pure al monte Calvario il luogo del sacrificio e della redenzione. “La Befana sta sul monte” scrive Pascoli e in tema di miti anche la nostre vecchietta portatrice di doni ci sta. All’origine era una bellissima fanciulla della tradizione etrusca che fecondava i campi prima della rinascita primaverile. L’iconografia cristiana ufficiale, sempre paurosa dell’energia femminile, l’ha poi trasformata quasi in una strega, benevola ma deve essere brutta e sdentata! È il destino degli dei pagani, demonizzati. Non così per Goethe, il suo poema si conclude con il notissimo verso “l’eterno femminino ci spinge“. Ci innalza. Femminino che è anima, Psiche, la compagna di Eros. Della coppia imprescindibile parleremo prossimamente.
I nomi delle Muse sono stati inventati da Esiodo. “Nomen omen” nel nome il destino, la finalità, “telos“. Poesia teleologica. Inizialmente erano tre, numero perfetto, ma divennero presto nove, altro numero sacro che moltiplica il tre: Clio, musa della storia, Euterpe del suono e in particolar modo del flauto, Talia della commedia, Melpomene della tragedia, Tersicore della danza, Erato della lirica in modo speciale della poesia d’amore, Polimnia della pantomima, Urania dell’astronomia, Calliope dell’epica. Esse uniscono il Bello con il Vero, scienza e immaginazione; costituiscono ancora un tutt’uno dell’uomo globale, non a una dimensione. Le Muse, pur figlie di Memoria, concedono agli umani l’oblio del dolore. È la funzione catartica dell’arte e del femminile dell’essere. In oriente abbiamo una parola che designa la gioia innata, fa sorridere i bambini, in noi l’eterno fanciullo (il “fanciullino” di Pascoli). Il nome è “Ananda“, estasi. È l’estasi dionisiaca da cui secondo Nietzsche nasce la tragedia.
Riguardo alla danza e al ritmo, nella poesia classica è essenziale il “piede” . Il piede veniva battuto in terra e scandiva un gruppo di sillabe, in sostanza sottolineava il loro accento, che formavano il verso. Ancora una volta musica e poesia si danno la mano per inventare la vita. Quale vita? Forse una super vita, un concentrato di vita, un superiore appagamento. È un’illusione? A ciascuno la sua risposta. Leopardi nello “Zibaldone” raccomanda di non uccidere le illusioni perché sono vitali. Elliot alla fine della “Terra desolata” invoca l’acqua e lascia in eredità la speranza, concentrata nel termine sanscrito “Shantih“, pace.
Le Muse sono la pace tanto desiderata.
Graziella Atzori