Le mucche non leggono Montale – Giulio Maffii

mucche

“La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti”. Montale in un suo scritto certamente ironico descrive così, sintetizzando al massimo, un concetto tautologicamente chiaro. Un foglio e una penna e il gioco è fatto. Il poeta, un dilettante in ogni caso, è pronto; pronto ad inondare di parole il prodotto del disboscamento (una crociata per salvare gli alberi è indispensabile) ed a causare un intasamento delle linee internet mondiali. Nei moderni Social Network è un florilegio di versi, ma la cosa che più colpisce è che alcuni personaggi oltre al proprio nome e cognome aggiungono “poeta” o più modestamente “scrittore”.

Nella mia attività di responsabile di una piccola collana poetica ricevo quotidianamente montagne di parole e tante lettere di presentazione. Con le sole lettere e i curricula si potrebbe scrivere un libro a parte, libro che per ovvi motivi dovrebbe essere inserito in un catalogo del genere “Umorismo” o meglio ancora in quello da creare delle “Cose Inutili”. Il declino e l’inutilità della poesia e del poeta nascono proprio dal fatto che “la poesia è tecnicamente alla portata di tutti”. Tecnicamente e virtualmente ma non realmente. Sto cercando di avere una statistica a riguardo del numero dei libri di poesia stampati a partire dal Novecento. Questa statistica dovrebbe avere un’impennata dagli anni 90 in avanti.

Siamo tutti scrittori! Questa è democrazia. Siamo pochi lettori, questo è un dato di fatto. Continuo a dare la colpa al foglio e alla penna. Strumenti così alla portata di tutti che ti fanno credere, quando va bene, di essere un novello Leopardi o Neruda. Cito questi nomi perché banalmente sono quelli che più ricorrono, al pari di Ungaretti, nelle famigerate lettere di autopresentazione. Si dovrebbe trovare qualcosa per rendere più difficoltosa la diffusione di cotale strumentazione notevolmente offensiva. Mi viene da pensare ad un piccolo paragone che già Gardini ha colto. A chi verrebbe l’idea di diventare violinista, arpista o suonatore di corno senza una adeguata preparazione, senza conoscere la musica e le sue regole, senza aver ascoltato quello che intere generazioni di compositori e studiosi hanno lasciato in eredità? Eppure il foglio e la penna sopperiscono ad un preciso, o impreciso che sia, percorso di formazione poetica.

Se il declino della poesia si collega al processo iperproduttivo del business legato in particolare al sottobosco poetico, al narcisismo puro ed ovviamente ad una mancata sistematizzazione della critica degli ultimi quaranta anni, il declino del poeta è dato, e parlo per paradossi, dalla figura stessa del poeta. La poesia è fondata sull’uso del linguaggio, non sull’autoreferenzialità come succede a partire dalla fine degli anni sessanta. Se l’antipoesia ha mostrato una strada interessante e innovativa, non voglio utilizzare l’abusato e improprio termine “sperimentale”, l’imborghesimento intellettuale dei post nuovi poeti ha indirizzato il tutto verso un’autopoesia in cui l’attore è il poeta. La poesia sopravvive a se stessa, come nota Berardinelli, e concordo con questa affermazione: il poeta è inutile. Riprendo e ricordo il concetto di malentendu saliniana, di rigenerazione continua e spontanea dei versi. Il poeta è altro. Sto parlando ovviamente dei poeti così riconosciuti da quella poca critica non militante, non di quei “dilettanti dei dilettanti” che definisco, senza offesa per nessuno, poeti “parrocchiali” legati ad un altro mondo e di cui parlerò in seguito.

La poesia soffre la crisi umana lacaniana: è un trauma del linguaggio che deve comunicare, arrivare, giungere, essere significante. Il problema è individuare l’io narrante. Il narcisismo è troppo elevato, l’io autoreferenziale avviluppa i testi, c’è un nobiliatro di teste pensanti. Luzi, il saggista -in questo caso- non l’eccelso poeta vero, mirabilmente illustra il concetto di vanità e di modestia. Il poeta deve essere naturale, usare la voce per altri non per essere egli stesso attore princeps. Deve combattere una sorta di petrarchismo che sembra affliggere generazioni intere, orgogliose, troppo, delle qualità personali a discapito della vera natura e naturalezza poetica. Sembra di assistere ad una messa in atto del detto popolare che “al mondo esiste un solo figlio eccezionale e che ogni madre ce l’ha.” Le baruffe letterarie sono ordinarie, sono scontri di personalità narcisistiche e di correnti opposte mosse magari non da un credo poetico, ma da bassi e risibili dispettucci personali. Attorno ad alcune figure centrali, forti e di potere, (ma non per questo qualitativamente eccellenti) si muovono le “correnti”, gli adepti. Viene in mente sempre la descrizione che Elio Pecora fa nelle prime pagine di un bellissimo saggio su Sandro Penna, relativa a certe personalità che giravano intorno al grande perugino. In realtà tali figuri si mascherano in gruppo per assumere più forza anche con scritti modesti, con lo scambio di favori concorsuali, con il trincerarsi dietro finte responsabilità. La psicologia della folla spiega molti comportamenti. La follia di certi comportamenti si spiega con la psicologia… e con scarsa poesia.

Questo è il capitolo d’apertura di un libro che devo ammettere non ho apprezzato moltissimo. Le mucche non leggono Montale di Giulio Maffii (pure poeta di certo livello), edito da Marco Saya Editore nel 2013, tenta nello spazio di poche pagine di fotografare il deprimente e desolante stato della poesia italiana restituendo l’immagine di un popolo di scrittori ebeti e ignoranti, incapaci di leggere e per questo inutili. Non ho apprezzato moltissimo, anzi affatto, questa posizione perchè in realtà non corrisponde a verità. È un voler vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto quando invece accanto le bottiglie di buon vino non mancano. Certo se osserviamo solamente il popolo degli autopubblicanti, dei poeti da case editrici d’infima reputazione, dobbiamo riconoscere una povertà diffusa e dilagante. Ma come le mucche non leggono Montale per fortuna anche le persone non hanno i paraocchi come i cavalli, per cui abbiamo la bella possibilità di vedere anche cosa c’è oltre le piccole tipografie che continuano a gonfiare gli ego (qualche giorno fa mi è arrivato un ragazzo, mio coetaneo, orgoglioso dei suoi cinque libri di poesia ma totalmente incapace di accettare un editing – tra l’altro veramente necessario per cercare con la mano sul cuore di tirar fuori qualcosa da una scrittura che neanche un sedicenne….).

Di poeti che leggono poeti, che traducono poeti, che propongono poeti, l’Italia è piena. Solo per restare attorno alla mia generazione (io sono del ’77) e a persone che in qualche modo e a vario titolo ho incontrato di persona, mi viene da citare Roberto Cescon, che cura la parte poetica di Pordenonelegge e il blog ipoetisonovivi.com. Amico di Roberto è Piero Simon Ostan, curatore del festival portogruarese Notturni Di Versi al quale recentemente si è aggiunto Guido Cupani, che cura le traduzioni dall’inglese di Patrick Williamson per la Samuele Editore. Sempre in zona friulana abbiamo Christian Sinicco che ha da poco curato una delle poche ottime antologie sul dialetto italiano. Poco più in là abbiamo Francesco Tomada e Giovanni Fierro, ambedue in prima linea nella proposizione di eventi e poeti, come anche Marco Scarpa. Allontanandoci dal nord est italico mi vengono in mente Matteo Fantuzzi, direttore editoriale per Ladolfi, Fabiano Alborghetti della redazione di Atelier, Isabella Leardini, direttrice di Parco Poesia, Chiara De Luca, editrice specializzata in poesia straniera, l’amico Antonio Lillo, anch’egli editore, Amos Mattio, segretario della Casa della Poesia di Milano.

Ma insomma la lista di poeti che in qualche modo sono attivi nella proposizione di altri poeti, che traducono, che curano festival, sarebbe veramente molto lunga (sempre restando attorno alla mia età mi vengono in mente anche Domenico Cipriano, Mary Barbara Tolusso, Domenico Ingenito, eccetera eccetera eccetera). La questione si potrebbe forse spostare sul fatto che siano o non siano capaci di scrivere vera poesia. Questione che personalmente trovo irrilevante in quanto credo sia indiscutibile che nessun grande poeta nasce dal nulla. È sempre necessario un certo fermento, un certo laboratorio diffuso, è necessaria la circolazione degli esperimenti e delle idee. In questo momento, piaccia o non piaccia, abbiamo un grandissimo fermento in Italia per quanto riguarda la poesia e tanto non mancherà, negli anni immediatamente futuri, di produrre il poeta. Che potrà essere uno dei nomi succitati o un altro di quelli attualmente attivi, oppure un ragazzino qualunque che ora gira per le varie case editrici ed eventi e che grazie a tutto questo e alle letture degli autori di cui sopra sarà capace di scrivere qualcosa che resterà nella storia.

La poesia è sempre un bene prezioso, e come tutte le diverse forme di bene necessita di cura e di tempo, di attenzioni, di una terra fertile e di acqua che la nutre. La terra di un grande poeta sono gli altri poeti, grandi o piccoli che siano, che in uno sforzo comune e corale preparano la strada. Io continuo ad essere convinto, nonostante le mucche non leggano Montale, che oggi diversi ottimi poeti stiano leggendo e studiando, stiano traducendo e lavorando. E che da questo fermento e grazie a questo fermento, prima o poi, nascerà il grande poeta.