Le attese – Giuseppe Nava


Le attese - Giuseppe Nava
Le attese, Giuseppe Nava (Vydia Editore, 2021).

Aprendo Le attese (Vydia Editore 2021) di Giuseppe Nava, non appena superate le pagine occupate dalla prefazione di Paolo Giovannetti, compare un piccolo segno su cui è necessario soffermarsi: una dedica di apertura a due persone, «A.» ed «E.», accompagnata dalle parole «septembre, en attendant». Per onestà, devo anticipare una questione: al contrario di Giovannetti, che dichiara esplicitamente in prefazione di non conoscere personalmente l’autore, io Giuseppe Nava so bene chi sia e di conseguenza mi sarebbe possibile supporre con ragionevole sicurezza i nomi che si nascondono dietro alle iniziali della dedica. Dico questo proprio perché, in realtà, le mie intenzioni vanno nella direzione opposta: facendomi strada ne Le attese vorrei dimenticarmi fin da subito queste iniziali, pur consapevole di non poterlo fare del tutto. Perché, che io conosca o non conosca Giuseppe Nava, comunque una dedica a inizio raccolta c’è e nulla mi fa supporre che sia un falso, un depistaggio. Intendo con questo che la prima cosa che un lettore è portato a notare quando si accinge a leggere questo libro è che all’inizio è presente un segno d’esperienza dell’uomo Giuseppe Nava (e non dell’autore Giuseppe Nava, che è altro) che riguarda tale E. e tale A., che riguarda quel «septembre, en attendant» (settembre, noi attendiamo). Come dire: ecco la prima delle attese di cui parla il titolo, l’attesa fondante, precedente al testo e al libro stesso. Anzitutto e inevitabilmente, un’esperienza dell’Io c’è. Leggere Le attese, da questo momento in poi, non potrà essere altro che provare a cogliere possibili specchi con cui questa esperienza è riflessa e mascherata nella scrittura o, dall’altra parte, trovarsi in un giardino in cui si è spogli per davvero. «In questa poesia, lettore, sei di fronte a un enunciato in cui prenderai atto che da qualche parte è detto (liricamente) che…» scrive Giovannetti nella prefazione. Bisogna avere fede nella tenerezza di ogni dedica.

I muscari

Nel cortile della casa dove abitano i miei genitori ogni aprile fioriscono per breve periodo dei piccoli muscari, fiori semplici e di prato, dal colore viola e dal fiore a grappolo. Capita spesso di sentirli chiamare «soldatini» da chi li nomina con consuetudine di sguardo e comprensione. Osservandoli, il motivo pare venire spontaneo, al di là di possibili storie etimologiche che non conosco: crescono longilinei tra l’erba simili a piccoli fanti, in gruppi come schiere di eserciti di un mondo delle fate. Soldati semplici del regno della precoce primavera, nell’ultima luce del pomeriggio, prima del tramonto. Viene da pensarli nelle nobili battaglie delle fiabe. Parlare della natura nel suo vivo e dinamico mostrarsi umanizzandola, dandole tratti umani, è pratica che viene da lontano nel tempo, con diversi modi della consapevolezza. Come la forma del fiore che nasce può essere la nobiltà semplice del piccolo fante, così il tuono può essere la storia di un agricoltore su una sedia che brontola ad alta voce. J. R. R. Tolkien, in Albero e foglia, ribadisce che «è ragionevole supporre che l’agricoltore sia saltato fuori nel momento stesso in cui Tuono ebbe una voce e un volto; che ci fosse un lontano brontolio di tuono tra le colline ogniqualvolta un narratore udiva un agricoltore preda dell’ira». Le dinamiche naturali possono divenire portatrici di un significato personale e di un tratto umano soltanto grazie a una conoscenza creatrice che pertiene all’uomo nel momento stesso in cui la vita delle piante o del tuono si manifesta. La personalità non può essere che qualcosa che deriva da una persona. Intendo dire che un uomo che sa pensare leggero, pesante, viola o verde osservandolo in qualcosa, nel momento in cui lo dice sta già autorizzando quella cosa ad essere leggera e pesante. Egli non sta solo guardando un fiore che cresce, ma è così in una comprensione dell’esperienza di quel crescere che ne partecipa, co-creando mediante parola. A patto di non perdersi in fascinazioni distraenti e occultismi astratti, si potrebbe dire che nella pratica di questa conoscenza attiva l’uomo è già in parte mago, attuando le sue sintesi. Tutto questo aiuta a chiarire la prima sezione de Le attese o se non altro un aspetto di essa, ovvero l’essere un «elogio-preghiera-canto di una stagione che si avvicina (l’autunno)» come scrive Giovannetti. Tutto un attendere, in questa sezione, è trasposto su un piano del naturale e della stagione: «la luna nuova», i «cani», «gli zoccoli», «l’estate», «le maree». L’autore, presente a un’esperienza dell’attesa che lo riguarda (non bisogna scordare la dedica), fa il gesto più antico del mondo: la conosce e la co-crea in tutto ciò intorno a sé in cui incontra vita che è nell’attesa. In altre parole, diviene in parte mago. Ecco allora le stagioni, ecco l’autunno. Ma perché estate che aspetta autunno? A prima immagine, ci verrebbe da dire che la stagione dell’attesa dovrebbe essere l’inverno nei confronti della primavera. La risposta risiede nell’esperienza stessa di queste poesie: non si tratta di un libro destinato a chi nasce o ha in sé la nascita, ma a chi deve morire per permettere nascita, a chi la nascita può solo vederla arrivare come veniente da lontano, facendosi secondo. In altre parole, è l’esperienza di un padre e non di una madre o di un figlio. Occorre l’autunno che decide di morirsi dopo il lungo sonno dell’estate perché altri semi siano covati in terra nei presupposti della primavera. Ecco il primo specchio.

Brave new world

La seconda sezione del libro ha come titolo rodrigo de triana. Il motivo lo si può comprendere sia andando a cercare le note in fondo al testo, sia provando a digitare su google questo nome dalle sembianze spagnole o portoghesi: i versi in corsivo, dialoganti anche graficamente con versi in carattere normale, sono presi dalle trascrizioni del diario di bordo di Cristoforo Colombo, come riportate nell’edizione italiana del 1864. Si aprono subito due questioni: anzitutto, non è indifferente che titolo e testi della sezione inneschino come primo movimento nel lettore “ho bisogno di qualcosa di esterno per procedere, come le note in fondo al testo o persino l’aiuto di internet”; in secondo luogo, se in questa sezione si comincia a notare una tendenza ricombinatoria di materiali linguistici altri che fin da Esecuzioni (d’if, 2013) è procedura ricorrente nella scrittura di Giuseppe Nava (non a caso è anche traduttore di Charles Reznikoff), l’effetto che essa produce non è in alcuna maniera riferito solamente a un esperimento sulla lingua. Riguardo a questi punti, con convinzione mi verrebbe da dire che questi testi hanno a che fare con l’avventuroso. Intendiamoci: non si è certamente di fronte ai pirati di Salgari o alle prose di Jack London. Sono però versi che in qualche maniera hanno l’andamento di un romanzo, che aprono a una simile modalità d’identificazione. La letteratura può produrre diversi tipi di evasione, quella del prigioniero come quella del disertore. Tramite il libro, è permesso allontanarsi per qualche tempo dal reale di qui per approdare in un immaginario altro, per incontrare diversi luoghi e linguaggi. Spingere un lettore a spostarsi dal libro per cercare su Google un titolo è consapevole strategia autoriale per produrre una specifica evasione. Come lo è anche inserire stralci di letteratura altra che aprono distanze e attese lontanissime. Nella sezione rodrigo de triana il gioco di specchi e nascondimenti si rende più complesso e sofisticato: la direzione presa sembra quella di voler creare una falsificazione tale dell’esperienza del reale al punto da rendere la copia in apparenza più autentica dell’originale. Per ora, però, è tutto facilmente e volutamente smascherabile. È il gesto del marinaio e dell’esploratore sulla nave: anche qui un’attesa di qualche cosa che proviene dal fuori di sé, una terra che arriva e si mostra, pur essendo sempre stata lì.

The man in the high castle

Nel romanzo di Philip K. Dick The man in the high castle (La svastica sul sole), la cui trama principale ipotizza la vittoria del Giappone e della Germania nella Seconda Guerra Mondiale e la conseguente spartizione del mondo, diversi personaggi consultano l’I Ching prima di compiere scelte importanti. Ad esempio, Hawthorne Abendsen alla fine del libro, dopo insistenti domande, ammette di aver utilizzato l’I Ching per progredire nella stesura de La cavalletta non si alzerà più, racconto speculare al romanzo stesso e inserito all’interno di esso. Per tutto il romanzo questo aspetto viene celato, fino alla conclusione, quando viene aperto il dubbio. Come intendere il racconto prodotto dalle risposte dell’I Ching, quel reale rovesciato in cui gli Alleati hanno effettivamente vinto la guerra? Al di là della sapienza narrativa di Dick, la questione è importante: una rivelazione nelle ultime pagine stravolge lo sguardo a un intero romanzo e a un suo mondo visibile, facendosi frattura per almeno un’ipotesi, una leva appoggiata sull’impossibile. La domanda chiama in causa il rapporto tra esperienza soggettiva del mondo e realtà storica così come essa si presenta nei fatti. Anche Giuseppe Nava, nella sezione Oracolari de Le attese, consulta l’I Ching prima di scrivere, fermando però in poesia solamente elaborazioni di risposte e celando invece le iniziali domande che le hanno generate. Se questo aspetto, come nel caso di Philip K. Dick, il lettore non può che saperlo alla fine, dalle Note al testo, nel contempo è però costretto a porsi ragionevoli dubbi. Perché, ad esempio, la sezione si chiama Oracolari, oppure perché, dopo sconfinamenti nelle lettere di esploratori spagnoli (la sezione rodrigo de triana), non è più credibile che l’autore torni ora a raccontarci un’esperienza dell’Io in maniera diretta, non obliqua. La quarta attesa, ancora più celante, è sempre più riflessa e di conseguenza ingannevole, simile a quanto riflesso non è. Le Note al testo danno la parvenza del risolto: in esse viene effettivamente indicato il grande specchio, l’ennesimo, di cui si aveva avuto impressione, ovvero l’I Ching. Le attese è un continuo richiamare a sé, al testo, il lettore, per poi spingerlo ad allontanarsi velocemente, a fuoriuscire. Anche in questa sezione, i motivi e il senso delle poesie, se uno volesse cercarli, sarebbero apparentemente esterni ad esse, in quelle domande non dette ma interpretate in forma di risposta. Occorre però essere attenti a non smettere di porre fede ad una dedica. Altrimenti c’è il rischio di perdersi nella casa degli specchi come Orlando nel Palazzo incantato di Atlante: ogni lettore può decidere di farlo, ma bisogna almeno che ne sia consapevole. Nella dedica è la vera ipotesi non ancora possibile e non ancora visibile, dunque necessariamente attesa.

51.4789°N0.2733°E

Immaginiamo uno dei tanti video che circolano online di questi tempi in cui droni militari si alzano in volo, inquadrano obbiettivi, bombardano edifici per poi tornare indifferenti alla base. Gesto anonimo, compiuto da un dispositivo, di una banalità terrificante se si vanno a guardare gli effetti che determina. Pochi minuti o secondi, delle coordinate che indicano un luogo e tutto si compie. Qualcosa accade e neppure si ha il tempo di rendersene conto, sia che le conseguenze ci colpiscano direttamente, sia che ci riguardino in altra maniera. 51.4789°N0.2733°E, un’indicazione di latitudine e longitudine, è il titolo di una delle ultime sezioni de Le attese, seguita poi da Patibolari. L’effetto che, a partire dal titolo, l’intera sezione produce è molto simile a quanto succede dentro di noi se ci si mette per un istante a pensare che in questo momento, mentre neppure lo sappiamo, in varie parti del mondo un drone sta rilasciando un esplosivo su un palazzo. Come scrive giustamente Paolo Giovannetti «Giuseppe Nava ci ricorda che, in qualche modo, laggiù dobbiamo (siamo tenuti ad) andare per capire qualcosa». I testi, la lingua, qualcosa ci dicono, facendo presagire violentemente: «i colli già venduti al niente oltre il mare / i colli racchiusi forse in sciarpe catenine mani / i colli piegati le teste inclinate i colli senza etichette i colli» con un seguito di elenchi di oggetti, come inventari di magazzino, e norme standardizzate di carico per autovetture, camion. Anche la forma, i versi, cominciano a disgregare, in una prosa soffocante. Non regge più niente. Di quei «colli racchiusi forse in sciarpe catenine mani» si rischia quasi di non accorgersi leggendo, così tramortiti da un senso banale e burocratico del discorso. Qualcosa di terribile, sembra intendere Giuseppe Nava, è successo sotto le rassicuranti normative e regolamentazioni a cui ci affidiamo con noncuranza ogni giorno, qualcosa che non può essere ridotto solo a percentuale minima di malfunzionamento di un sistema. Solo ora si può tornare al titolo: digitando le coordinate 51.4789°N0.2733°E su Google (senza bisogno di qr code, il web è strumento privilegiato nelle strategie di questo libro) appaiono come primi risultati, ironicamente subito dopo a un articolo di Recensireilmondo proprio su Le attese, dei riferimenti a un fatto successo il 23 ottobre 2019 a Grays, nell’Essex in Gran Bretagna, quando 39 persone di origine vietnamite furono trovate morte in un camion refrigerante. Solo ora si può procedere verso le Note al testo per avere la conferma di come la sezione, nelle parti a elenco di oggetti e norme, sia costruita a partire da materiali prelevati dai regolamenti europei dei trasporti. Sempre più stretta è la somiglianza con il drone.

La sezione successiva, Patibolari, apparentemente parla chiaro. Giuseppe Nava compone i testi raccogliendo e ricombinando materiali ricavati dal sito internet del Texas Department of Criminal Justice, in cui sono riportate le ultime dichiarazioni di tutti i condannati a morte giustiziati dal 1982 a oggi, e dai fascicoli denominati Offender information. Che cosa queste persone attendano è fin troppo evidente. Tornano al massimo grado le già citate parole di Paolo Giovannetti in prefazione: «In questa poesia, lettore, sei di fronte a un enunciato in cui prenderai atto che da qualche parte è detto (liricamente) che…». Qui il reale viene fatto parlare con un autore minimo a mediare, perché pur sempre una forma del testo c’è e la si potrebbe indagare. Parrebbe strano che la più compiuta interpretazione di un’attesa avvenga laddove viene lasciato parlare il reale come fatto incontestabile; infatti, un simile tentativo consapevolmente non viene attuato. Qualcuno parla (i condannati a morte) ed è sempre la persona sotto la lingua che emerge e dice. L’attesa, sembra comparire in sottofondo, non è se privata dell’esperienza di una persona, di un individuo.

The dark side of the moon o una breve conclusione

C’è un noto album dei Pink Floyd nella cui copertina, su sfondo nero, è rappresentato un prisma attraversato da un fascio di luce che, nelle diverse facce, si scopone in colori primari. Davide Castiglione, in relazione a Nemontemi di Giuseppe Nava, argomenta a proposito di una scrittura che si sviluppa per «gemmazione interna». Si potrebbe tentare un simile ragionamento anche per Le attese, ma in questo caso credo che la rappresentazione più efficace sia proprio il prisma. Vi è un’esperienza fondante dell’attendere, precedente al libro o comunque esterna ad esso, che lascia segno in una dedica. Le sezioni del libro si presentano come scomposizione in diversi colori del medesimo momento luminoso, dell’unica attesa che trova riflesso in tutte le altre. Come il raggio di luce incontra una precisa superfice e si specializza in un colore, così l’esperienza d’attesa, mediante il prisma – autore, si appoggia su vari temi e modi del reale, facendosi specifico riflesso. Le attese si presenta come uno studio consapevole della riflessità, nell’intenzione di riconoscere, tenendo a memoria la prima luce, quante più sfumature di colore possibile. Certo, la gamma e lo spargersi dei colori è all’apparenza ben più cangiante e sorprendente del minuto segno di una dedica, sobria traccia di un’esperienza che in un Io è tantissimo. Grande sapienza far comparire il reale un poco minore a come ne è l’attesa: come quando una persona cara ci racconta con indubitabile meraviglia un luogo che, nel momento in cui giungiamo effettivamente a guardarlo, ci sembra solo quello che, un angolo tra un giardino e una strada o quel preciso albero, ma nulla di più. Il vestito più curato e glorioso può nascondere un corpo che, una volta spogliato, si rivela fragile, doloroso: eppure in esso è contenuta la bellezza per portarlo, o stonerebbe inevitabilmente, come una camicia dalle maniche troppo lunghe. Le attese è un libro che, se non ci si perde, preserva un segreto senza dissipare nulla.

Carlo Selan

 
 
 
 
Le attese - Giuseppe Nava 1
tutto è pronto nel nido dell’albero
fiduciosi del favore delle lune o delle maree
e cresce geometrica la forma e il dettaglio
e si affina l’astronomia della tua posizione
svelata dalle impronte che svaniscono sulla pelle
 
crescono e pesano gli strati delle promesse
delle previsioni e delle rassicurazioni
comprimono la gabbia ed il respiro
spostano gli organi, i baricentri sballati
ma ogni volta che t’alzi si accende il mondo
 
non dicono che pure il corpo si dirada
asciugato nella ghiaia, appeso al cavo di metallo
quanto del mondo è davvero taciuto oppure sei tu
compresso gradualmente a un tendine unico
a una grande cartilagine
 
 
 
 
 
 
leggere ancora leggere non capire non credere
possibile rinunciarti col sorriso più spavaldo
sollevata sopra la piena che copre le cime degli alberi
misurata a contagocce a tappi a misurini
centoventi per cominciare poi di trenta in trenta
dicono manco te ne accorgi finché un giorno
leggi e lo vedi che la luce l’attraversa
che sta andando e non toccherà nemmeno terra
ma per capire dovrai leggere e ancora leggere
nelle pieghe della pelle gli occhi le pagine saltate
per disattenzione e leggerezza
 
 
 
 
 
 
saremo pronti? saremo giusti?
capiremo la portata del gesto?
il mare potrebbe non avere mai fine
il mare uccide, il mare è tondo
e l’acqua ti porta capovolta
nel suo grembo di sale
 
videsi molta erba e assai sovente
erba di scogli e veniva da ponente
ognuno giudica non essere lontana
la terra