Verso la metà degli anni Cinquanta, nel sud del Brasile, il biologo Warwick Estevam Kerr stava conducendo una serie di esperimenti di ibridazioni intraspecifiche tra api tipiche dell’Africa centro orientale e quelle invece della zona europea: il suo obiettivo era di raggiungere la forma ultima di una razza nuova, che fosse più a suo agio nel clima tropicale – più resistente – così da aumentare la produzione per la quale era stata selezionata.
E ci riuscì: Kerr diede vita a quella ormai conosciuta come ape africana, che in poco tempo divenne anche nota come ape assassina. Sì, perché un incidente del 1957 permise a parte di questi “sciami mutanti” di fuggire e dirigersi verso nord – dimostrando in questa migrazione una spiccata aggressività nella difesa dei loro alveari; e dando il via, inoltre, a nuove forme di incroci e incontri con diverse sottospecie che nel corso dei secoli si sono definitivamente insediate nelle rispettive e differenti faune locali.
Questo l’evento realmente accaduto reso antefatto fondamentale dal nostro osservatore prediletto, Raos, muovendo da qui la stesura della sua opera Le api migratori, resa pubblica nel 2007 con Oèdipus edizioni, in riedizione poi nel novembre 2022 con dia•foria edizioni. O almeno, di sicuro è stato utilizzato come pretesto per sondare poi una visione ben più stratificata ed evocativa.
L’autore lo nomino come “osservatore prediletto”, appunto: ché il suo libro è sorta di diorama entro cui si sviluppa una sub-osservazione ulteriore, al livello del laboratorio spesso nominato, di cui si esamina il dentro e il fuori in base ai soggetti guardanti e guardati.
È il paradosso che qui viene messo in atto, e su due piani non necessariamente distinti e autonomi.
Il primo riguarda l’aspetto linguistico: già particolarmente evidente dal titolo, Raos sovverte la normale sintassi e morfologia conosciute, contamina prendendo in prestito dal latino dal giapponese dal francese (lingue di cui è studioso da anni ed esperto traduttore), dalle avanguardie. Insomma, piega la parola a servizio dell’espressività – della suggestione. È per questo che l’arnia diviene arma ripetendosi fittamente per due intere pagine, o che i termini si susseguono incalzanti in richiami sonori, onomatopeici, semantici («Finirà per fame, per pena, per male, per noia, per niente. / Finirà per niente, per noia, per male, per pena, per fame». Oppure «Che sciame sia, che chiami, / questo fischiare vento e sciame, / nome dopo nome, / come // • puntino»). In breve, il diorama prima nominato è per l’autore anche uno spazio di lavoro – oltre che di osservazione dei subiecti all’interno.
Il secondo piano, invece, è molto più incentrato sul contenuto di questo paradosso – che non sulla forma comunicativa con cui viene reso. Riguarda, cioè, gli ospiti del diorama che Raos scruta e di cui ci riporta nella sua opera: le api e gli umani.
Il sovvertimento qui attiene al chi sembri guardare chi – chi sembri stare dentro o fuori il laboratorio. L’autore lascia intravedere l’intenzione di ridimensionare enormemente (sul piano astratto, ma anche fisico e materico) la figura dell’uomo, fino a farlo divenire piccolo essere di cui esaminare i comportamenti. Nonostante l’evento da cui prende inizio lo spunto per l’opera veda l’essere umano come prevaricatore sull’animale, è quest’ultimo a prendere in realtà il sopravvento e sottomettere la specie sedicente “dominante” rinchiudendola nella sua impotenza. Ed è perciò che in tale lettura, sono le api – fuori dal laboratorio – ad osservare gli uomini che ne sono invece all’interno. E questo studio da parte dei nostri insetti protagonisti, non viene riportato carico di risentimento, crudeltà o di spirito vendicativo. Anzi. Raos fa parlare i nostri animali (da ricordare: esseri fondamentali per il pianeta intero essendo responsabili di circa il 70% dell’impollinazione di tutte le specie vegetali viventi, e garantendo circa il 35% della produzione globale di cibo. Divenendo dunque così strumento insieme di esistenza e di inesistenza) con pietà, con mestizia. Disperazione («(…) non sopporta più niente, / la vita, non sopporta niente»).
Le api del testo ci vedono come pedine comunicanti eppure desolate, sciamanti noi in masse ma sempre concentrati come automi sui soli bisogni individuali; bisogni effimeri, per di più, tanto che il laboratorio da cui gli insetti ci osservano sembra divenire quasi una grande teca allestita a mo’ di «centro commerciale visto dall’alto, centro immenso», tra i cui scaffali vaghiamo come zombie cercando di servirci del niente, di niente – servendo a niente.
Siamo dunque corpi che si alimentano di consumo, divenendo noi stessi merce e prodotto, «(…) clientela annerita, bruna / del suo sangue che niente, tiene, non trattiene» in questa sorta di cannibalismo riflessivo e reciproco sino a svuotarci definitivamente di una qualsiasi forma di umanità.
Puntualmente cito qui in parallelo il regista G.A. Romero, con il suo Dawn of the Dead del 1978, il quale affermava che «In una società consumistica noi, come loro (i morti viventi), finiamo per comportarci in modo simile, come fossimo eterodiretti all’acquisto di cose e merci, senza controllo.».
In conclusione: “nel laboratorio” c’è una vivi-sezione che, come accennato in precedenza, occorre a ridimensionarci – facendoci muovere come più ci è noto nel mondo moderno, nella bidimensionalità cioè del commercio che attraversiamo in un costante loop egoistico di spesa-consumo-spesa; quando “fuori dal laboratorio”, invece, gli animali protagonisti dell’opera ci osservano pietosamente.
E Raos, ancor più su, scruta studia gli elementi del suo diorama di cui riporta a noi lettori la sua attenta, sentita visione.
Arianna Vartolo
Esistono
cammini disegnati di calcare,
città sfiorate punto a punto: e non collegano.
L’estraneo
permane, microscopico:
ogni uomo, che spreco, ogni astro.
I cammini paralizzati
Caduto via dal vento, sorvola una città.
Ci siamo a sbattere. Si frange.
Scontra intanto che si abitua il vento al nostro esserci.
Coprirlo, non vederci, in questo andare.
Abbiamo superato un primo passo, un primo fiume,
continuando che passava il vento dice.
Perché fame non restare, insinua di continuo, la città.
“È come un sogno che facevo da bambino”
ci diceva chi ci crea, chi già moriva:
centro commerciale visto dall’alto, centro immenso,
di scaffali a centinaia, centinaia metri alti,
scale l’uno contro l’altro, passerelle,
gente tridimensionale,
merce ovunque, anche fuori
anche dentro, in sincronia,
per più colori, assorda musica.
Sono superfici una per specie,
sono piani intricata e di dischiusa,
di materia
e piena, e nera, arriva in piena, sulla merce, sulla musica,
l’orda intera che spandeva espansa,
onda espande e la clientela esplode,
si aprono a ventaglio sulla rosa a raggi sei:
1) prodotti per la casa 2) lavatrici 3) libri e quotidiani
4) macelleria 5) pescheria 6) ortaggi
e sono piena fuga che si squarcia indietro, all’indietro,
e che non serve, totalmente
implosa. Che si chiude a ventaglio, fa cammini paralizzati, prima,
nella rosa da una prima, aperta
lacerata. Sempre meno, mentre cadono,
uno irrigidito, uno contratto, oh spasimo,
cosa chiedono, che gridano, o scemano, oh spasmo,
questa clientela annerita, bruna
del suo sangue che niente, tiene, non trattiene
e goccia, e sgoccia. E cade. E senti intanto che svaria, come cade
dolce alla dolcezza il suo brusìo, lo sciame
che ne tenta ancora piano, aprire vene
e farne rivoli, ruscelli, rami –
cade corpo
e scatolame.
Ne facevamo così poco, di quel corpo, di corpi,
che ancora meno ne restava, ancora male.
È come chi moriva, chi ci crea:
“Ancora un po’ di meno, ti prego, un poco meno male.”