L’assedio della gioia – Francesco Brancati


L’assedio della gioia, Francesco Brancati (Le Lettere, 2022).

Francesco Brancati esordisce con il libro L’assedio della gioia, edito da Le Lettere nel 2022, con la prefazione di Massimo Gezzi. Brancati si occupa per professione di studi di poesia contemporanea, è quindi inevitabile rintracciare nell’opera influssi degli autori oggetto di studio, riferimenti espliciti o criptati a una tradizione letteraria rielaborata e mai tradita: basti pensare al testo che rimanda dichiaratamente al Prufrock di Eliot, a una certa consonanza di metodo compositivo con la Rosselli, a riecheggiamenti fortiniani e sereniani e a possibili paralleli con la poesia di Mazzoni.

Il libro è un organismo dall’architettura calibrata e rigorosa e dai livelli stratificati (cinquanta testi distribuiti in sei sezioni, ciascuna di otto poesie, più un testo in apertura e uno in chiusura). Tuttavia, alla simmetria e alla regolarità della struttura corrisponde una estrema variabilità nella misura e nella forma dei testi (dal verso breve a quello esteso fino al limite della pagina, e alcune occasioni in prosa), oltre che dei registri linguistici (con l’uso di un lessico che spazia da tecnicismi di vario ambito – medico, scientifico, letterario – ad anglicismi e latinismi, da espressioni del parlato colloquiale al lirismo di stampo novecentesco). Brancati sembra dirci che è necessario ricorrere a una strumentazione polimorfa e a una prospettiva quanto più mobile possibile, per restituire con sufficiente approssimazione la complessità del reale. Il titolo stesso dell’opera, L’assedio della gioia, è una sintesi di poetica: la sua ambivalenza mira a offrire una pluralità di visioni ripudiando ogni fissità interpretativa (motivi ben evidenziati da Massimo Gezzi in prefazione: “è un genitivo soggettivo o oggettivo, L’assedio della gioia? È la gioia che assedia uno o più soggetti – ed è la poesia che reagisce a questa evenienza – oppure è la scrittura che tenta un assedio alla gioia?”).

Un altro segnale legato al titolo si coglie sin dai primi testi: i due termini, l’assedio e la gioia, si ritrovano, l’uno svincolato dall’altro, disseminati nell’arco del libro con una variazione d’uso e di contesto tale da aprire varchi di comprensione o, al contrario, da intorbidare la chiarezza appena conquistata e forse già perduta. La scrittura sembra rispondere a un ritmo interno del pensiero: parola dopo parola, visione dopo visione, giungere sul ciglio del significato per sottrarsi all’ultimo istante e perennemente ricominciare a interrogare. Se l’assedio evoca stati di allerta e strategie di sopravvivenza (“L’assedio non inizia prima della tregua / […] / L’assedio non finisce dopo la sconfitta”), la gioia può intendersi come appagamento di un desiderio o come inseguimento di una “idea di felicità”, che potrebbe anche risultare falsa, perché indotta da un sistema che la riduce a merce (“La gioia appare dopo aver spento / la luce […] / Le cartilagini e i nervi sono i bastoni della gioia / […] la caverna / della gioia tracima gli odori con la paura”).

La poesia di Brancati non intende descrivere ma interpretare la realtà (anche quella psichica, con i suoi meccanismi di autoinganno), perciò il soggetto della percezione e i punti di osservazione mutano di continuo, così da aggiungere di volta in volta un tassello alla comprensione del presente. Se ne può trovare una sorta di annuncio nei versi che aprono e chiudono il testo proemiale: “Adesso crede di ascoltare / il suo pensiero / […] / Ha voltato le spalle. / Dopo, il suo sguardo annota”. Non c’è una realtà univocamente leggibile, ma un io pensante che elabora i dati della percezione, e nel farlo è cosciente della parzialità – e della probabile fallacia – delle sue stesse deduzioni.

La sezione Da una finestra è il primo esercizio di interpretazione: se il tema è la malattia e il dolore, lo strumento di lettura è la vista, che inquadra e seziona gli ambienti e gli oggetti (città, strade, ospedali, corridoi, lenzuola, flebo), si sofferma sui dettagli dei corpi e degli abiti, scompone e ricompone frammenti di realtà, nel tentativo di trattenere un senso, laddove tutto “si perde e dilegua”. Nel ciclo della natura e della storia l’individuo è come sospinto ad agire per sé stesso e per la specie. La sfera dell’io collide di continuo con quella degli altri, eppure rimane impenetrabile; il contatto, se avviene, è parziale e temporaneo (“È ragionevole accordare / per breve tratto un’invasione / della propria area di esistenza / agli sconosciuti […] / […] Secondo un’altra / configurazione del tempo sono / questi gli attimi che preparano / l’intuizione buia del massacro, / il passaporto ovvio della specie.”, I nomi, 1).

Fedele alla costruzione di una scrittura che procede per quadri e piani sovrapposti, per campi lunghi e minime auscultazioni, Brancati registra le tracce del vissuto individuale e collettivo e ne squaderna i codici interpretativi. Gli scenari della cronaca quotidiana entrano nel campo visivo a partire dalla sezione Paesaggio con passaggio. Anche qui, dove si incontrano alcune figure che appartengono ai margini della società, il pensiero non è mai asservito a un pregiudizio, piuttosto è proteso a secernere un qualche estratto di senso. È un mondo che espone la sua sofferenza e i suoi conflitti, eppure sembra negarsi alla comprensione. Persino dinanzi alla schiera di turisti giapponesi intenti a fotografare ogni cosa, a catalogare “le tracce / prima che diventino resti”, prevale l’impressione di irrealtà: “Tutto è bagnato da una luce che è realtà / e che insieme non può esistere davvero.” (Piazza dell’Anfiteatro). A questo senso di straniamento si sfugge solo concentrandosi nei gesti quotidiani, nella prassi degli atti necessari.

Nella sezione Giorni di vacanza appare cruciale l’esigenza di coniugare l’espressione ritmico-lirica con la tensione filosofico-speculativa. Lo dimostra il testo J. A. P. dopo qualche anno, riconsiderando le ingenuità dell’altra volta (un rifacimento eliotiano), e anche Ciò che pensavo infine arrivasse, con la sua cadenza anaforica: “Ciò che pensavo infine arrivasse / e mai è arrivato / al netto della conta dei minuti e delle ore, / convertiti in spasmi e sorrisi e poi spasmi / e sorrisi, sembra essere quanto più manca. // Soprattutto adesso che ho posto / le mani sul tavolo, lontane dal fuoco / e fredde insieme a un rametto scampato / alla strage, sorprese nel dire al mio viso / francesco smetti non vedi che nulla // mai nulla di quelle lastre e parole / troverà il luogo, bucherà il muro / oltre il corridoio, più bianco da quando / tra la porta e lo specchio vi cresce / come un ragazzo il silenzio”.

Ora la poesia è un tentativo di interpretare la grammatica della gioia (il titolo della sezione seguente), laddove ogni cosa può darsi come vera e al contempo ingannevole – la ricerca della felicità, l’incomprensibilità del dolore, l’aspirazione a trattenere il ricordo. Ci si aggrappa alla concretezza degli oggetti, alla materia dei luoghi, alla presenza del corpo. Il corpo è in sé stesso assertivo, con le sue percezioni e le sue funzioni, dalle più elementari alle più complesse, fino alla sua fine, la sua e la nostra estinzione: “[…] il corpo è riscaldato il corpo illanguidisce il corpo è strappato a morsi il corpo è salvato il corpo è iniettato il corpo è tenero il corpo è obeso il corpo è rinchiuso il corpo ascolta il corpo sparisce” (Il corpo).

Questa e le altre prose intercalate nelle varie sezioni sono come collegate internamente e consentono uno sguardo lucido e diretto sul nucleo propulsivo della scrittura. Sotto il congegno razionale agisce un conflitto di forze, una contesa tra passato e presente, intuibile forse meglio che altrove nel finale di un testo della sezione Il terzo motivo: “Era un perdurare ottuso. Il pensiero spingeva le palpebre oltre la percezione della frase, il mare diventava il suo terrore e non sapeva come sorprendersi fino a pregare di poter cadere, non dovere sopportare più”.

Nell’ultima parte del libro i due elementi del titolo, finora apparsi divisi l’uno dall’altro, si ricongiungono in una sorta di distensione conclusiva: “Un incessante sforzo di ricordare, di trattenere. Equivale a rispondere a un assedio. L’assedio della gioia”. La sezione Gioia dell’asfalto è infatti soprattutto il luogo della conciliazione, dell’atto di fede nella scrittura e nel silenzio da cui essa si origina: “La poesia, il suo santuario pronominale / un silenzio che, immedicato, persiste.” (La spesa (il fiume)). Forse la poesia è il modo migliore che abbiamo per comprendere, e accettare, che siamo solo “una piccola paura / nella nebulosa di terrore del mondo”.

Daniela Pericone

 
 
 
 
L’assedio non inizia prima della tregua,
non trattiene i resti della festa,
la solitudine sorpresa intorno
ai corpi, gialla, sopra le lenzuola.
 
Il risveglio nella stanza dei malati
sembrava una luce differente,
emozionata dalle flebo,
le buste per l’urina.
 
L’assedio non finisce dopo la sconfitta,
i morti dentro i sacchi, gli abbracci
nel cortile.
 
Spaventa solo a tratti,
un grido nel respiro
appena un po’ più acuto
del suo viso intravisto
e poi riperso lungo il sogno.
 
 
 
 
 
 
I nomi
 
2.
 
Per forse qualche istante pensa sia
possibile lasciare che il mondo
(tutto quel che vede, che lo riguarda
e che comprende) esista così come
esistono le cascate, gli insetti
nella terra, i sorrisi intimoriti
dietro le fontane, mentre lo sguardo
risale le molecole sul viso
e cerca un riparo oltre le spalle
nude e forti di tutte le ragazze.
 
Vede le figure precipitare
in un movimento troppo piccolo
perché possa fissarle in una zona
esatta di quella che, sulla base
di un elenco impreciso di libri
e discorsi, chiama la sua coscienza.
 
Dalla serie confusa di immagini
si sforza di ricavare una visuale,
un quadro di insieme che autorizzi
il passaggio dalla deduzione
di una qualsiasi differenza
a un’incolpevole e sicura
rivendicazione di individualità.
 
Eppure non riesce a ricomporre,
a trasformare un’intelligenza
dei sensi in emozione o materia
e, come la memoria o altre sciocchezze,
il frammento si perde e dilegua,
il suo impegno ritorna leggibile,
ritrovare lo zaino, raccogliere
tutto, portarsi di fretta all’uscita
preparato di nuovo a discendere.
 
 
 
 
 
 
Ciò che pensavo infine arrivasse
e mai è arrivato
è il terriccio scostato di una strada
con l’ombra delle nostre figure
proiettata nel primo freddo lucido di ottobre.
 
Ciò che pensavo infine arrivasse
e mai è arrivato
è il senso dello spessore, la profondità
degli arti di un corpo che inconsapevoli
costruiscono rifugio a un altro corpo.
 
Ciò che pensavo infine arrivasse
e mai è arrivato
è il movimento unito del respiro,
precipitato con la luce che irradia
le montagne nello stesso istante sul pensiero.
 
Ciò che pensavo infine arrivasse
e mai è arrivato
è il calore invernale della carne, l’elezione
spontanea delle fibre, dei vasi e delle cellule
in una fragilità sola, minuscola umanità.
 
Ciò che pensavo infine arrivasse
e mai è arrivato
è il riparo intravisto nella corsa, impauriti
dalla pioggia che sembrava
uscisse come una gioia dalle nostre bocche.
 
Ciò che pensavo infine arrivasse
e mai è arrivato
è il movimento lento delle tue gambe,
costellazioni che dispettose laceravano
l’aria colpendo ogni stella dell’estate.
 
Ciò che pensavo infine arrivasse
e mai è arrivato
non era scritto in fondo a nessun libro,
come nel libro un viaggio assassino verso
dove bisognava a ogni costo arrivare.
 
Ciò che pensavo infine arrivasse
e mai è arrivato
al netto della conta dei minuti e delle ore,
convertiti in spasmi e sorrisi e poi spasmi
e sorrisi, sembra essere quanto più manca.
 
Soprattutto adesso che ho posto
le mani sul tavolo, lontane dal fuoco
e fredde insieme a un rametto scampato
alla strage, sorprese nel dire al mio viso
francesco smetti non vedi che nulla
 
mai nulla di quelle lastre e parole
troverà il luogo, bucherà il muro
oltre il corridoio, più bianco da quando
tra la porta e lo specchio vi cresce
come un ragazzo il silenzio.
 
 
 
 
 
 
A volte sono le gambe, l’incubo
è pensarle che non reggano,
lo schianto improvviso e preciso
come il movimento del ferro
irresistibile nella gola.
 
Eppure fa il suo meglio per sorprendere
l’illusione della vista, dire le braccia
prima che rovinino lungo i corridoi
con la pece dentro gli occhi.
 
Allora sono soltanto un’iride di pena,
acqua verde, mi guidano le piastrelle
del pavimento, dicono gli spazi fino
alla finestra, il respiro enorme della pineta
davanti alla camera da letto, la casa
esplosa di macerie sul finire della frase,
il gesto del bicchiere sul vassoio
poco prima della cena.
 
Avere un tetto, costruire un riparo,
proteggere le ossa, ripetere lo vedi
adesso le mani hanno smesso di tremare
 
inventare gli sguardi senza le parole.
 
 
 
 
 
 
Il buio riconosce la sua materia
nella consistenza della luce gli oggetti
e le persone si depositano, sembrano
conservare profili delle loro sofferenze.
 
Provare con la poesia, quando le mani
sono ancora soltanto le mie mani,
ad afferrare la sostanza del dolore,
le dita ustionate appena prima del fumo,
l’odore di bruciato, stremati dalla corsa
per tramortire il ricordo incagliato
dietro l’argine estremo del fiume,
il luogo incantato dell’incubo, dove
una notte (ma erano i fanali l’uomo
che abbiamo visto correre incontro
al nostro spavento) è stata il principio
della gioia, incurante l’assedio.