L'amante – Marguerite Duras

duras

Anni e anni dopo la guerra, i matrimoni, i figli, i divorzi, i libri, era venuto a Parigi con la moglie. Le aveva telefonato. Sono io. Lei l’aveva riconosciuto alla voce. Le aveva detto: volevo solo sentire la tua voce. Lei aveva detto, ciao, sono io. Era intimidito, aveva paura come prima, la voce improvvisamente gli tremava e in quel tremito, improvvisamente, lei aveva ritrovato l’accento cinese. Lui sapeva che lei aveva cominciato a scrivere libri, l’aveva saputo dalla madre incontrata a Saigon. Sapeva anche del fratello piccolo, disse che ne aveva sofferto pensando a lei. E poi sembrava che non avesse altro da dire. Ma poi glielo aveva detto. Le aveva detto che era come prima, che l’amava ancora, che non avrebbe potuto mai smettere d’amarla, che l’avrebbe amata fino alla morte. Con questa frase si chiude L’amante, celebre romanzo (a dire il vero molto breve) di Marguerite Duras. Edito per la prima volta in Francia nel 1982, apparve in Italia per Feltrinelli nel 1985 e ne venne fatta una versione cinematografica nel 1992 per la regia di Jean-Jacques Annaud. È in quest’ultima edizione che l’ho conosciuto la prima volta anche se, a dire il vero, non l’ho mai terminato. Avevo un’amica innamorata di quel film, soprattutto della scena in cui l’amante lava il corpo della ragazza, ed ora, a molti anni di distanza, ho deciso di leggerne il romanzo.

Dice che è solo, atrocemente solo con quel suo amore per lei. Anche lei gli dice che è sola. Non dice con che cosa. Lui dice: mi hai seguito fino a qui come avresti seguito chiunque. Lei risponde che non può saperlo, che prima d’ora non aveva mai seguito nessuno in una camera. Gli dice di non parlare, di fare come fa di solito con le donne che porta nella sua garçonnière. Lo supplica di fare nello stesso modo. Le toglie il vestito e lo getta lontano, le strappa di dosso le mutandine di cotone bianco e la porta così nuda sul letto. Poi si gira dall’altra parte e piange. E lei, calma, paziente, lo tira verso di sé e comincia a spogliarlo. A occhi chiusi, lentamente. Lui vorrebbe aiutarla. Lei gli chiede di non muoversi. Lasciami. Dice che vuol farlo lei. Lo fa. Lo spoglia. Lui si limita a spostarsi un po’ nel letto quando lei glielo chiede, ma appena, delicatamente, come per non svegliarla. La pelle è sontuosamente morbida. Il corpo, un corpo magro, senza forza, senza muscoli, come dopo una malattia, convalescente, imberbe, senza virilità se non quella del sesso, è debole, disarmato, sofferente. Lei non lo guarda in viso. Non lo guarda affatto, lo tocca, tocca la pelle liscia del sesso, il corpo dorato, la sconosciuta novità. Lui geme, piange. È innamorato in modo abominevole. Lei, piangendo, lo fa. Prima c’è il dolore. Poi quel dolore viene sopraffatto, trasformato, strappato via lentamente, portato verso il piacere, avviluppato a esso. Il mare, sconfinato, semplicemente incomparabile.

 
L'AMANT

Una storia d’amore struggente e atroce nella sua lucidità. Quasi una sfumatura di crudeltà nell’incapacità della ragazza protagonista di ammettersi innamorata. Un’incoscienza che deriva da un’istintiva saggezza. La ragazza infatti sa fin dall’inizio che la storia con l’amante cinese, di molto più grande di lei, non può andare a buon fine. Non ci sarà alcun coronamento se non l’attimo presente, il momento in cui lui lava il corpo di lei in una disarmante confessione erotica. Il romanzo è l’autobiografia di una donna, la scrittrice, che a quindici anni vive una relazione al tempo considerata clandestina con un amante cinese che è innamorato in modo abominevole del suo corpo bianco, della sua pelle morbida e giovane. Quella stessa pelle che invecchierà impietosamente troppo presto: Un giorno, ero già avanti negli anni, in una hall mi è venuto incontro un uomo. Si è presentato e mi ha detto: “La conosco da sempre. Tutti dicono che da giovane lei era bella, io sono venuto a dirle che la trovo più bella ora, preferisco il suo volto devastato a quello che aveva da giovane”. Penso spesso a un’immagine che solo io vedo ancora e di cui non ho mai parlato. È sempre lì, fasciata di silenzio, e mi meraviglia. La prediligo fra tutte, in lei mi riconosco, m’incanto. Presto fu tardi nella mia vita. A diciott’anni era già troppo tardi. Tra i diciotto e i venticinque anni il mio viso ha deviato in maniera imprevista. Sono invecchiata a diciott’anni. Non so se succeda a tutti, non l’ho mai chiesto.

La ragazza, nel romanzo anonima come il suo amante, vive quest’incontro erotico negando a se stessa l’amore, l’ammissione d’essere innamorata. Il contesto è l’Indocina degli anni trenta e la sua enorme povertà che non è solo mancanza di mezzi ma mancanza di speranze, di chiarore. Al tutto si aggiunge una famiglia particolarmente problematica nel fratello maggiore despota ed egoista e nel minore con ritardi psichici. E una madre con gravi difficoltà a gestire l’intero nucleo. La ragazza, specchio delicato ma crudele del contesto, conosce l’amore fisico ma psicologicamente lo svuota di sentimento accettando soldi dall’amante quasi alla stregua di una prostituta. Arrivando addirittura a sfiorare un’esperienza omosessuale nel tentativo di spersonalizzare ulteriormente il rapporto con l’amante: Mi siedo accanto a lei. Sono sopraffatta dalla bellezza del suo corpo appoggiato contro il mio. È un corpo sublime, libero sotto il vestito, a portata di mano. Seni come quelli non li ho mai visti. Non li ho mai toccati. È impudica Hélène Lagonelle, e non se ne accorge, va in giro nuda nei dormitori. Una delle cose più belle che Dio abbia creato è il corpo di Hélène Lagonelle, incomparabile, con quel suo equilibrio tra la statura e i seni sporgenti che sembrano esistere per sé soli, separati dal corpo. […] Porta inconsapevolmente quelle forme di fior di farina, le esibisce per mani che le impastino, per bocche che le mordano, senza trattenerle, senza conoscerle, senza conoscerne il favoloso potere. Vorrei mordere i seni di Hélène Lagonelle, come lui morde i miei, nella camera della città cinese dove ogni giorno vado ad approfondire la conoscenza di Dio.

In realtà nell’economica del romanzo la storia d’amore pare quasi soffrire, restare soffocata, nell’imponente presenza della storia della famiglia della ragazza, della loro povertà, dei loro problemi. Una storia che incontra la relazione clandestina della ragazza ma solo per permettere alla famiglia di lei di approfittare dei soldi dell’amante. Un amore che si insinua nella sua vita nel momento in cui la coppia si divide come da sempre presagito. Un amore mai più ritrovato che riemerge potentissimo e delicatissimo alla fine del romanzo anche se la sua pelle, l’oggetto dell’adorazione del cinese, non è più quella di quando aveva quindici anni. Ora lei scrive libri, regalando anche in questo romanzo stralci di altissima riflessione sulla letteratura: La storia della mia vita non esiste. Proprio non esiste. Non c’è mai un centro, non c’è un percorso, una linea. Ci sono vaste zone dove sembra che ci fosse qualcuno, ma non è vero, non c’era nessuno. La storia di una piccola parte della mia giovinezza l’ho già più o meno scritta, insomma l’ho lasciata intravedere, intendo la parte di cui parlo, quella dell’attraversamento del fiume. Ora faccio qualcosa di diverso e di uguale. Prima ho parlato dei periodi limpidi, chiari. Ora parlo dei periodi nascosti di questa stessa giovinezza,di fatti, sentimenti, eventi che avevo dissimulato. Ho cominciato a scrivere in un ambiente in cui dovevo farlo con pudore. Scrivere, allora, era ancora un impegno morale. Adesso scrivere sembra che spesso non sia più niente. Talvolta me ne rendo conto: scrivere, o è mescolare tutto in un viaggio che ha per destinazione la vanità e il vento, o non è niente; o si mescola tutto in un’unità per sua natura indefinibile, o si fa soltanto della pubblicità.

 
L'AMANT

Il pudore, la dissimulazione anche a se stessa, coinvolge l’immagine stessa della ragazza da giovane nel cappello che all’inizio del romanzo si fa comprare dalla madre e mette. Un cappello da uomo per la sua figura piccola e gracile. Ma quel giorno non sono le scarpe la nota insolita, inaudita nell’abbigliamento della ragazza. Quel giorno porta in testa un cappello da uomo con la tesa piatta, un feltro morbido color rosa, con un largo nastro nero. A creare l’ambiguità dell’immagine è quel cappello. Come fosse capitato in mio possesso l’ho dimenticato. Non vedo chi potrebbe avermelo dato. Credo che me l’abbia comprato mia madre, e su mia richiesta. Unica certezza: è un saldo di saldi. Come spiegare quell’acquisto? Nessuna donna, nessuna ragazza porta cappelli da uomo nella colonia, a quei tempi. Neppure le indigene. Ecco come deve essere successo: io mi sono provata quel cappello, tanto per ridere, mi sono guardata nello specchio del negozio e ho visto, sotto il cappello maschile, la magrezza ingrata della mia persona, difetto dell’età, diventare un’altra cosa. Ha smesso di essere un dato grossolano e fatale della natura. È diventato l’opposto, una scelta che contrastava la natura, una scelta dello spirito.

Una dissimulazione che si espande sempre di più comprendendo anche i concetti più ampi del vivere quotidiano: Bisognerebbe avvertire tutti di tali eventi. Comunicare loro che l’immortalità è mortale, che può morire, che può morire, che è successo, che continua a succedere, che essa non si palesa mai in quanto tale, che è la duplicità assoluta. Che non esiste nel particolare, ma soltanto in linea di principio. Che certe persone possono celarne la presenza, a condizione che lo ignorino, e che certe altre possono svelarne la presenza nelle prime, alla stessa condizione, ignorando di poterlo fare. Che la vita è immortale mentre è vissuta, mentre è in vita. Che l’immortalità non è una questione di tempo, non è una questione di immortalità, è qualcosa di ignoto. Che è falso dire che non ha principio né fine, come è falso dire che comincia e finisce con la vita dello spirito, poiché partecipa dello spirito e del trascorrere sulle orme del vento. Guardate le sabbie morte dei deserti, i corpi morti dei bambini: l’immortalità non passa di lì, si ferma e li evita. Per il fratellino si trattava di immortalità senza difetto, senza leggenda, senza accidente, pura, assoluta. Il fratellino non aveva nulla da gridare nel deserto, non aveva nulla da dire, altrove o qui, nulla. Non aveva istruzione, non era riuscito a istruirsi su niente. Non sapeva parlare, sapeva a malapena leggere, a malapena scrivere, talvolta si poteva pensare che non sapesse neppure soffrire. Era uno che non capiva e che aveva paura.

Un libro di struggente poesia e verità sulla complessità delle relazioni umane e sentimentali, sulla difficoltà dei sentimenti, del loro esistere, un libro sulla vita che continua nonostante tutto. Un libro di amarezze, di delicatezze, di ferocie e di ritorni. Un libro di pelle, un libro di anni. Un libro d’amore anche se forse non avrebbe voluto esserlo. Si sarebbe potuto credere che amasse quel dolore, che lo amasse come aveva amato me, profondamente, forse fino a morirne, e che adesso lo preferisse a me. A volte diceva che voleva accarezzarmi perchè sapeva che ne avevo una gran voglia e voleva guardarmi quando arrivava il piacere. Lo faceva, mi guardava e mi chiamava la sua bambina. Avevamo deciso di non vederci più, non era possibile, non era stato possibile. Ogni sera lo trovavo davanti al liceo, nell’automobile nera, il volto girato per la vergogna.

 
JJA_LAMANT-02