La tua malattia non sa rimanere nei limiti del suo confine, nel cerchio del suo stato formale. È un istinto incapace di controllarsi, di arginarsi, un boomerang stagliato nel vuoto e ghermito con l’intenzione di farne un bottino fecondo, un seme da mettere a frutto. Nel giro di un pensiero rivoltoso, di un’intuizione cieca, spendi in libri 1.000 euro in un mese, seguendo, distrattamente, di getto, l’impronta di uno stile di cascata, di acqua bestiale vinta, votata, come fuoco di sterpaglia, come atto di condanna, a consumarsi tutta, a sacrificarsi integra, intera. Anch’io tento di fabbricarmi una postura morale, ma il materiale edilizio scivola e la costruzione fallisce. (Storia di una diabolica pulsione. Beffardo congegno meccanicistico).
Tra dolore segreto (perché impronunciabile) e sforzo di superamento (sorpasso) del groviglio perfetto, il groviglio sferico, circolare, appoggiato sul margine del tuo punto di vista frontale, all’orlo della tua visione sdoppiata in vita riflessa e interlocuzione dialogica… Tendiamo a farci male. In questo farci male la nostra corsa custodisce la dinamica vitale dell’essere. Problematizzare il nostro stare è azione di concime. Questa, la vita. Non c’è trascendenza più sfrenata a oscurare la tua strada.
La notte bipolare è una malattia inguaribile. Talvolta il piede ammacca l’acceleratore, e, in silenzio, succede la strage. Tante piccole, tremende stragi quotidiane di cui nessuno dei nostri amici saprà. Né tua madre o tuo padre, né chiunque altro con cui ti rapporti. C’è una stretta correlazione fra i microtraumi del suicidio giornaliero e la necessità – l’ananke – dell’azione inesorabile. Oppure la ferita che ti procacci quando agisci d’impeto, quando, manovrato dal raptus, perdi la testa e colpisci alla cieca. Poi, passata la furia, che è una specie di morte violenta, crolli, e prende inizio il lutto, quel sapore di amaro in bocca, il senso drammatico di un breve, grottesco pentimento come grottesco è tutto ciò che si ripete, meccanico, meccanizzato, un vizio di mente, un ciclo, un anancasmo. Sbagliare è il nostro gesto perfetto. Siamo ridicoli.
Ci siamo innamorati del sapore del veleno e ne abbiamo fatto liquido – base di ogni soluzione, liquore fondante di ogni cocktail. Tra dipendenza e disturbo, c’è una lunga serie di denti, unghie e altre armi umane. L’oscillazione pendolare della ruota ci morde, ci tortura, scarnificando l’intero di ogni parte, la parte di ogni intero, facendo sineddoche, anafora, contorsione e inversione di tutto ciò che siamo. Il male è una realtà piena di figure retoriche. Noi siamo retori e rettori di un vecchio movimento di diaspora, di un istituto di pena, che ci scortica dall’interno e ci toglie ossa e organi, eviscerando Psiche ed Eros, verità identitarie di ogni genere, mostrificando l’arrivo alla morte.
Con la semplicità di una risposta logica, imparo la strada. L’interlocutore sia frontale e il livello pari. Che a ogni evasione carceraria corrisponda l’invaso di un’ondata di lotta patriottica, un’ondata di rivolta verso lo stato della sottrazione, che, da millenni, ci ha reso esuli, perdenti, corde senza ganci, gatti randagi, cani espropriati, radici volanti, scorie di corpi gassosi, spine dell’albero aereo, irreale, spine del nostro mondo, universo inverosimile. Qui ciò che chiamo vero. È stato detto. La conquistata sedazione del paradosso. Lo sconcertante, squallido disarmo del fondo.
Alfonso Guida
Da Resistenza e sparizione (Avagliano, 2023)
Io sto nella biforcazione.
Dentro questa placenta un sogno
più arcano ti annuncia: ed è un chiaro
sentire la pace del nume, quanto
solo un niente gli somigli.
Se pure
chiedi fiato al cielo, appicchi d’oro l’ombra
che avvicino
e guidi l’ape nel punto in cui la piaga si allarga,
non so ancora sciogliermi in un guizzo, crearmi
un equilibrio per la voce.
Mi dici in sogno
il volo necessario,
in che palude hai gli occhi buoni
e come credi sia peccato
solo splendere di noia
nel digiuno. Non l’alcol,
non il fuoco delle croci
o l’edera avvinghiata alla mia estate,
sei tu che acceleri l’arcano
in questa terra che mi torce
e mi assicura, il tiepido lunare…
Forse un’eco, da dove l’ordine è finale
e abbiamo i palmi scorticati per la gioia
a un suo sorriso, l’imprudenza collaudata
delle sere nei parcheggi che lodiamo
senza vento, prima di.
Ricordo sì, la città da cui partimmo
rodere gli alberi in preghiera si direbbe,
la neve in bocca che splendeva come un sasso
o una moneta; e il silenzio, il silenzio
era una bava, il mio cuore
contro il tuo semplificato.
Nci mbrogghia l’occhi nu lapuni
quandu bbrisci. È russa e non è sangu
chi mbilena. Fridda e non è nivi
pari nenti – ’a testa mbàscia
pi sintiri comu veni. Ma figghiu
quanta luci ntimurisci e dassa suli?
I troppu celu mori nu cardiddhu.
Gli intriga gli occhi un’ape
all’alba. È rossa e non è sangue
che avvelena. Fredda e non è neve
sembra niente – il capo basso
per sentire come viene. Ma figlio
quanta luce intimidisce e lascia soli?
Di troppo cielo muore un cardellino.
Si cchiovi forti ngiura n’atra siti
’u vecchiu ntrubbuliatu
’a lingua ri sdirrupi. Sciogghi i cani
aùnd’è prena, sputa pi ccamora. L’arduri
è na sciumara troppu shritta mi t’a squagghi.
L’arduri è l’atra siti chi zannìa
chi cùbuli e chi muschi,
chi cùbuli e chi frischi ri limuni;
chi ddici: Vogghiu ’u mbernu ’u mbernu vogghiu
’u mbernu ancumarinu pi nchianari.
Se piove forte offendi un’altra sete
il vecchio annuvolato
la lingua dei burroni. Sciogli i cani
dov’è pregna, sputa per adesso. L’ardore
è una fiumara troppo stretta per sparire.
L’ardore è l’altra sete che giochicchia
con cupole e con mosche,
con cupole e con fischi di limoni;
che dice: Voglio inverno inverno voglio
inverno comeazzurro per salire.