La vita è tenere insieme le cose – Roberto Cescon


 
 
Le cose che vedo sono una mappa:
 
questa è la libreria che non basta
questa è la tivù per non pensare
questa è la sedia, forma del mio corpo
questo è il frigorifero, un calendario che scade
questa è la tastiera per vedere meglio
questa è Anna, questo è Pietro, che dormono
per difendersi dal male
quelle le case fuori per dirmi
la normalità dei giorni.
 
Se tolgo le cose che vedo
io sono quello che resta
ma senza sentirmi perché
sono le cose a dire chi sono.
 
 
 
 
 
 
Il servomuto
 
Raccolgo il giorno nei gesti che sono
levare la camicia, piegare i pantaloni,
unico proposito di ordine.
Sui vestiti c’è il mio odore, fumo e pelle.
 
Rivedo le parole già dette
e quelle mancate.
Ora il servomuto ha la mia forma,
la sensazione di perdere tempo
e non averne mai abbastanza.
 
Qualcosa resta sempre addosso
le domande per esempio ogni sera
che strisciano quando spengo la luce.
 
Tutta la vita a spogliarmi
mai veramente del tutto.
 
 
 
 
 
 
Solo a raccontarla crediamo alla coerenza
della nostra vita quasi fosse una ricetta,
ma la strada resta dritta solo finché la pensiamo:
esistono lepri, buche, strettoie
da attraversare
con le mani ferme sul volante.
 
La vita è tenere insieme le cose
che abbiamo rotto o sono scappate,
perché facciamo di tutto
per restare a galla,
ci spinge un vento che asciuga
ciò che abbiamo steso.
 
D’altra parte non possiamo innamorarci
delle storie dei romanzi
e volere che la nostra sia una fiaba.
 
Dovremmo essere più indulgenti
con gli errori che facciamo
perché vivere è sbagliare, cucire, rialzarsi.
 
 
(Roberto Cescon, La direzione delle cose, Ladolfi, 2014)
 
 

In questi testi di Roberto Cescon si assiste a un’impietosa osservazione della vita quotidiana, dei suoi gesti più ordinari, routinari e ripetitivi, che si impilano in un loop di normalità, rischiando di far smarrire senso e prospettiva all’individuo e al suo tessuto di relazioni sociali e familiari.

Nel primo testo si assiste a un elenco di cose, che assumono il valore orientativo di una mappa: pericolosamente, dopo la libreria, la tivù, la sedia, il frigorifero e la tastiera, entrano nella lista anche la moglie e il figlio, Anna e Pietro, prima delle case fuori. Si assiste a un procedimento in cui gli oggetti sono quasi personificati (“sono le cose a dire chi sono”) mentre gli esseri umani sono svuotati, spogliati, deumanizzati (“se tolgo le cose che vedo / io sono quello che resta /ma senza sentirmi …”).

La spoliazione, dal mondo circostante e familiare, nel secondo testo passa a quello individuale: di nuovo, gli oggetti che identificano l’io narrante nella sua quotidianità (i vestiti con il proprio odore, il rituale quotidiano del riporli in ordine per riutilizzarli il giorno successivo) costringono al confronto con un oggetto che prende la forma dell’uomo, il servomuto, inducendo a considerazioni spiacevoli quali “la sensazione di perdere tempo / e non averne mai abbastanza”, riflettendo sulle “parole già dette / e quelle mancate”.

Le domande ogni sera restano sempre addosso, e non si possono riporre come una camicia su un alter ego inanimato, cominciando ad evidenziare che la spoliazione non può essere assoluta, per quanto lo possa sembrare (“tutta la vita a spogliarmi / mai veramente del tutto”).

“Solo a raccontarla crediamo alla coerenza / della nostra vita quasi fosse una ricetta”: in queste parole è esposta la rivelazione di tutte le nostre contraddizioni, coperte da una serie di sovrastrutture narrative che raccontiamo a noi stessi e a chi ci circonda per rassicurarci, per non avvertire l’aculeo dello smarrimento e dell’esposizione alle forze irrazionali della nostra esistenza.

Consapevoli di tali “buche, strettoie / da attraversare / con le mani ferme sul volante” è però possibile arrivare a una considerazione chiave: riconoscere i propri limiti e la propria natura imperfetta consente di realizzare che “La vita è tenere insieme le cose” (quelle stesse cose che ci circondano, ci identificano, ci esercitano alla spoliazione), le cose “che abbiamo rotto o sono scappate”, perché, che lo vogliamo o no, siamo responsabili anche di mille fratture, rotture, storture, nonostante le finzioni narrative che decidiamo di raccontarci quando vogliamo “che la nostra (storia) sia una fiaba”.

“Perché facciamo di tutto / per restare a galla” ma soprattutto “perché vivere è sbagliare, cucire, rialzarsi” e, in ultima istanza, anziché negarli o nasconderli, “Dovremmo essere più indulgenti / con gli errori che facciamo”.

La nudità di Cescon, dacché era sostanzialmente una forma di distacco dalle condotte ripetitive e quotidiane, e di conseguenza una spoliazione degli attributi della vita di ogni giorno (come la “divisa da lavoro” che può rappresentare il binomio camicia e pantalone), diventa sottrazione dei pregiudizi che abbiamo verso noi stessi e la nostra esistenza, accettazione e riconoscimento dei nostri limiti ed errori, dell’irrazionale, dell’imperfezione, e infine comprensione e perdono di tutto questo, come chiave per accettare i propri sbagli e cucire nuove tessiture di senso, e infine tornare in piedi, senza cedere al peso delle cose, e alle loro terribili verità.

Mario Famularo