È solo una sensibilità femminile delicata, profonda e affinata nel tempo come quella di Serena Mansueto che rende possibile trasferire nel verso il sostrato più essenziale di un doloroso cammino esperienziale mantenendo intatti lungo l’intera silloge vigore, stile, acuto sguardo. Nella tregenda a cui siamo introdotti il rintocco della parola in La statua inesistenza (L’Arcolaio Editore, 2024, con nota dell’autrice) si fa puntuale, esatta dinamica di una composizione anfibia, con rimandi al mito greco, percepibile come sforzo costante verso una maturità poetica che sprigiona originalità e si configura dotata di una fisionomia propria. Anfibia poiché plurime sono le diadi che emergono, umanità-natura, volontà-disincanto, finitudine-immensità, grembo-mondo. Lungo questi assi cartesiani l’autrice ci rende partecipi di un tempo presente e dilatato insieme, catartico, in cui gli accadimenti non sono obliabili dacché s’insemprano, rinnovandosi costantemente. Ampio l’uso di figure retoriche che costellano la scrittura: siamo rimbalzati dalle ctonie latitudini (“la grotta del corpo”) alla superficie della speranza e l’attenzione si sovrappone allo sconvolgimento emotivo indotto dalla contingenza. C’è pur sempre un tentativo lieve di staccarci dall’inesprimibile nulla (“accarezzo ciò che viene da lontano”), effimero appiglio che conduce a riconoscere alla “cara oscurità”, al “nero che straripa” attorno a cui ruota l’intera composizione l’essenza di un elemento tonitruante quando non una ferale citazione biblica. Il singulto di vita, di volta in volta concepito come un bulbo, come luce primigenia, come “goccia-uovo” è abbracciato, difeso, accostato con grazia e la parola, in Mansueto, sa immillarsi per spargere pluralità di immagini. Come già in Ungaretti e in Pavese, quest’ultimo non a caso citato in esergo di una delle sezioni della silloge, anche nella poetessa pugliese il verso si asciuga, si scarnifica nel suo dispiegarsi, rattiene denso e corposo il proprio dire tale da richiedere un’azione ermeneutica precisa. L’assenza, come in Bertolucci, è una presenza acuta e chiede compassione ponendosi come laica, ardente preghiera di fronte al “crollo” esiziale ed inesorabile. Restano, come sospese e irrisolte, le suggestioni in forma di domanda che, al postutto, ci riguardano, ci sospingono ad accogliere, al di là di ogni cosa, “le apparenze offerte dalla vita come segno dell’impossibile”.
Federico Migliorati
Interiore nr. 1
Piccolo, piccolissimo, il seme
ancorato come una goletta nella rada
crea il suo nido nel nucleo di luce.
Un messaggero scodinzola da vicino
sullo strato del vetrino, è la storia dei secoli
dei secondi fitti a ingrandire il mondo.
Uno solo insieme agli altri, un esercito
di foglie con i rami sguainati
e un frullo d’ali nella confusione di fedeli
abbacinati dalla goccia-uovo: come loro
segna una devozione
un respiro al futuro.
Esteriore n. 3
È nel buio che si formano le stelle
ma compaiono belve umide di paura
contano la somma dei peccati
la storia raccontata e i malati di errori.
Il bulbo è già portatore sano del futuro
sbagliato
le colpe dei padri ricadranno sui figli
Interiore nr. 4
Sempre di giorno
sempre – anche di notte
e sorda e muta la catena si scioglie
rotea in una nuova forma.
Compone lo stato osseo dal guscio
di luce, una primavera più interiore.
È un laboratorio nella pancia, ricostruisce noi
le stoffe combinate dei corpi
gli ingredienti
antenati delle ossa, tutte le formule
predette