La seconda voce, Gabriela Fantato (Transeuropa 2018).
Parlando quasi un anno fa con Gabriela Fantato di alcuni testi che sarebbero apparsi ne La seconda voce (raccolta che al tempo avrebbe dovuto intitolarsi Vite rubate) ci soffermammo sul tema della metamorfosi, dell’ambivalenza del reale. L’autrice parlava di trasformazione di materia in altra materia e trasformazione di spirito in altro spirito […] un ritorno alle origini, un’ evoluzione verso la semplicità ancestrale, verso l’esistenza essenziale (del legno, della pietra…). In questa raccolta il tentativo di Fantato è quello di attraversare il foro bianco della vita e portare alla luce l’intreccio di voci di chi fu / e se n’è andato, / di chi ti ha stretto forte e chi / non ha capito, di tutti i cari morti ma anche dei senza nulla / dei perduti e andati, dei mai trovati, dei senzavoce appunto. Di fronte le macerie delle cose, tutte le cose ferite, spaiate, radunate, ciò che resterà dopo, nel silenzio.
La sezione che apre il libro, Calendario della sparizione è una riflessione sulla vita, un bilancio in perdita che tentiamo comunque di far quadrare attraverso la conta dei ricordi, dei momenti felici che crescono sopra / il male. Vita fatta di materia, di nervi e fibre, di parti incastrate bene o male al posto, vita invocata e celebrata mentre un dio / nascosto tra le cose si fa spazio nel buio. Un intreccio continuo in tensione verso ciò che ci ha reso quello che siamo, le nostre radici, che si fanno strada dentro di noi. E l’infanzia ritorna come la risacca del mare, insinuandosi lungo il Delta del Po dove i ricordi si fanno più luminosi, dove si scopre la tenacia della gioia. La raccolta prosegue dando voce agli scomparsi, alle vittime: Hina Saleem con la bocca gonfia di terra che ascolta in attesa eppure ancora legata alla terra che l’ha accolta (io non voglio ancora / passare il confine, non so l’ultimo addio). E poi ecco le Vite rubate: le vittime dell’uragano Katrina, il pirata (un vecchio barbone che viveva sul Delta del Po), Martina, violentata in una discoteca, Natasha Kampusch, Giovanna Sicari e infine Marina Cvetaeva. Voci che Gabriela Fantato fa risuonare ancora attraverso la sacralità della poesia scegliendo il filo di un racconto per mantenerle ancora nella memoria, nell’aria intorno. Un coro che attraversa il tempo e la storia e di cui la poesia diventa custode. Una Voce che resta […] e che ci fa / – timidi e terribili, / una forma antica che ci tiene / con i piedi infilati nella storia / e ci fa eroi dentro la pietà.
Michele Paoletti
Invocazione II
Vita, vita schiacciata, vita che salva
non sei, vita dei senzanulla
dei perduti e andati, dei mai trovati,
vieni! vieni, vita dei senzavoce,
dei lasciati ai lati, vieni vita che sei
dentro le pieghe di un cielo tra le croci,
vita che scappi nel taglio.
Vita, sola certezza negata dentro i giorni.
Vieni, vita – sono qui, ti ascolto.
Stanze ad incastro
Nella stanza si vede il taglio
quello non scritto, quello senza nome
nella cronaca dei mesi,
nel racconto fatto piano con la fede
nei dettagli.
Quando tutto sgretola, la forma
oscilla nel ricordo, si fa linea,
trasforma la tavola e il pane.
Resta la voce che ci fa
– timidi e terribili,
una forma antica che ci tiene
con i piedi infilati nella storia
e ci fa eroi dentro la pietà.
É questa l’onda, il respiro che lega
tutta una generazione.
Risvegli
a Claudio e Viola
Era il centro dei giorni quell’anno grande.
I mesi non hanno più nome
se non quello semplice dei figli cresciuti
dentro il lettino come il grano alto
nel calore della prima estate.
Il giorno può continuare
il suo girotondo, le mattine invece
sono solo il loro risveglio.
Piccoli gridi in saluto verso
qualcosa lassù, sul soffitto, qualcosa che
solo i bambini vedono.
Forse l’ombra, la parte più grande
del mondo
o un angelo impigliato nel tempo.
La casa accoglie il rito, diventa
ritmo di sonno e veglia dentro
gli angoli aperti alla meraviglia
dove il muro incontra la sua forma.
Cantilena antica di perdite
e resistenza celebrata tra le lenzuola,
scoperta come un miracolo.
Le pieghe nelle stanze si aprono al corpo,
dicono l’abbraccio, dicono le cellule
venute dal buio, diventate sorrisi e
labbra, occhi che inventano, sudore che disegna
piccoli uccelli nel prato
e quei bambini che saranno e
saremo noi, ancora…