Attorno a una rima ben dosata, in uno screziato universo di immagini che si sovrappongono e ritornano come in una danza senza sosta, si dispiega la poesia di Sara Fruner, poetessa, docente, traduttrice, cultrice della letteratura post coloniale di lingua inglese, in questa recente opera apparsa per Crocetti Editore (La rossa goletta, Sara Fruner, Crocetti 2024) che si compone di oltre 180 testi. Epigrammi e gnomiche illuminazioni si accompagnano a un verso più diluito e ampio, dai plurimi aforistici sguardi e nel quale la metafora assurge a caratteristica dominante. Oggetto precipuo dell’intero corpus dell’opera, come è bene evidenziato dai risvolti semantici del termine “Goletta” nel titolo, è il viaggio, il peregrinare che in alcuni tratti si presenta periglioso e incespicante, lo scartamento temporale che avvolge la figura principale in balìa di un presente sfuggente. E in questo andare il ruolo del sentimento, osservato di quando in quando attraverso una lente d’ingrandimento o il buco della serratura, assurge a motore ideale del pensiero e segnatamente lo è l’amore, “il vaso che perde”, il tutto che ci assorbe, un vortice che inghiotte ogni azione. Può dunque accadere, ad onta di una poesia che in questo nostro tempo si produce in uno sperimentalismo eccessivo quando non subisce acrobatiche e retoriche influenze dal passato, che le piccole cose quotidiane, il costante e lutulento muoversi e rinnovarsi della vita, anche quella minima, si configuri nel verso come primizia di gemma, quale epifania di rinnovata speranza di un avvenire incerto. Nulla è lasciato a un dire qualsiasi o superficiale, al semplice divagare della mente: come un passeggiatore solitario Fruner penetra nella sua interiorità, ci rende partecipi di un vissuto sfaccettato, contraddittorio e fragile, teso ad allontanare “giorni di agro salmastro” dove si trova anche il modo per mettere in versi, alla maniera di Giudici, l’evidenza dei vivi e persino il muto trascolorare delle stagioni che è palingenesi della nostra esistenza. Per questo tra un giorno che muore e un altro che s’affaccia si fa strada con insistenza la necessità di trovare “un bagliore di sole”, quella verità, “verbo eretico”, a cui aneliamo: per andare avanti e non farci prendere dallo sconforto: “Nel cantiere del vivere/ l’attrezzo indispensabile/ non è da trovare/ lo devi fabbricare”. un breve passo per suggellare un fondo di giustizia, quell’equo obiettivo che è dato a ognuno, senza limiti. Ed avanzare, nonostante tutto, è anche assaporare il nettare agrodolce del tempo, “faccenda tanto di botte/quanto di arte” poiché nulla viene assegnato alla partenza: in questo senso in La rossa goletta è ampio il ricorso ad antonimi, per confezionare un verso che riluca nel suo significato. Assenza/presenza, buio/luce, passato/futuro, solo per portare qualche esempio, sussumono una condizione dell’esistenza e allo stesso tempo forniscono bagliori osservati sul variegato universo che abita la protagonista, ricco di metafore: lo si percepisce non solo nel periodare disteso, ma altresì nella concezione stessa che ha della poesia, materia impalpabile ed ineffabile che si agguanta e allo stesso tempo sfugge, un po’ come la vita stessa, compresa al meglio soltanto quando si fa ombra e la morte è in limine. L’insieme della composizione conferisce ai singoli elementi trattati uno stile lucido e arguto che la avvicinano a certe scritture di un autore “in bilico” tra poesia e teatro, il toscano Sauro Albisani segnatamente nei versi più aderenti a un senso aforistico: in entrambi l’asserzione sferzante si accosta a una verità di fondo che tramortisce. E a solleticare il guado esistenziale da attraversare resta il desiderio, sfibrato in questo nostra società moderna, ma vivo in una poetessa che lavora con le parole, in maniera forse talvolta ardita, ponendosi oltre il comune sentire e restituendoci, nel desiderio irredento di vita e di amore, l’accadimento e quel “mare antico” che non sappiamo più navigare né osservare.
Federico Migliorati
Il piccolo pezzo di me
sì la scala s’inabissa
e sempre risorge
la sabbia vagheggia
il mito del cristallo
mentre i ponti resistono stoici
alle malie del crollo
e i fossili scrutano
nell’occhio del dotto
il piccolo pezzo di me
che hai sottratto
sboccerà dentro di te
fiamme celesti
e fiori grifoni
e il cocente sguardo
della desolazione
sarà il tuo raccolto
per la nuova stagione
Poesia e altro
guardami
non ho terra
non ho pace
non ho nulla
solo voce
una cosa devi sapere
mi afferri soltanto
se mi lasci andare
Amore, ritratto
la gamba sospesa
di nuovo sul ciglio
una spanna nel vuoto
di nero velluto
la presa che affanna
in cerca di appiglio
La formica
la formica
avanza spedita
certa
col dorso carico
sull’irta salita
di un pezzo di torta
l’esistenza
del suo passo militare
del suo essere colossale
in mezzo alla pochezza
dell’umana inconsistenza
scrive un trattato
dedicato alla speranza